L'INTERVENTO DEL PRESIDENTE DI CONFCOMMERCIO, SERGIO BILLÈ

L'INTERVENTO DEL PRESIDENTE DI CONFCOMMERCIO, SERGIO BILLÈ

D:19-5-2005 P.01 T:VERTICE A PALAZZO CHIGI CONTRO LA CRISI

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19 maggio 2005
Permettetemi di fare prima di tutto un'osservazione che non è solo di cornice

L'intervento del presidente di Confcommercio, Sergio Billè

 

Permettetemi di fare prima di tutto un'osservazione che non è solo di cornice.

Questa: i problemi, quando sono seri, non vanno lasciati sul fuoco troppo a lungo perché, alla fine, si scuociono e i piatti che escono dal forno - cioè le soluzioni - rischiano di diventare ancora più indigeste.

Questo per dire che non c'era certo bisogno di attendere i risultati della trimestrale di cassa, di Eurostat, dell'Ecofin, dell'Ocse e poi anche le punture di spillo di Almunia o di Barroso per sapere che le nostre imprese da tempo non investono, che i consumi ristagnano pesantemente, che i saldi della spesa pubblica non tornano, che la crescita del paese sta diventando sempre più faticosa, anzi quasi non c'è più.

Già un anno fa, infatti, questi dati erano chiari e palpabili. Nell'affrontarli per quel che realmente erano e sono si è atteso troppo e, nel frattempo, essi si sono ulteriormente aggravati.

Noi siamo pronti oggi a dare il massimo della nostra collaborazione per risolvere questi problemi o comunque per cercare di affrontarli con la necessaria severità e urgenza, ma perché questa collaborazione non finisca per essere derubricata al punto da diventare solo una mozione degli affetti c'è bisogno, in primo luogo, che il governo ci esponga, con molta chiarezza, quali sostanziali correttivi intende apportare ora alla sua linea di politica economica.

Il che vuol dire porsi nuovi obiettivi ma anche spiegare, nel dettaglio, quali strumenti si intendono usare per poter avere una realistica possibilità di raggiungerli nei tempi che saranno programmati.

La condivisione di questi strumenti è il corollario da cui può partire la nostra disponibilità a nuove e più attive forme di collaborazione.

Ha ragione il ministro Siniscalco nel dire che, per superare una crisi che ormai sta diventando strutturale, occorre che tutte le componenti del paese "si adeguino ad una nuova realtà".

Realtà che definirei difficile se non proprio drammatica perché si tratta di far ritornare competitivo questo paese sui mercati senza poter far ricorso a risorse aggiuntive. Un vero e proprio doppio salto con l'asta.

Noi crediamo che questo salto olimpionico si possa ancora tentare, ma allora occorrono patti chiari, intese concrete, analisi e interventi che siano realmente condivisibili e praticabili.

Mi pare superfluo soffermarmi ancora sull'estrema debolezza che caratterizza oggi la domanda di consumi. Come mi pare altrettanto superfluo sottolineare il marcato senso di disorientamento dei piccoli risparmiatori che, per cercare di tutelare il loro reddito, non sanno più a che santo votarsi.

E mi ha davvero imbarazzato, oltre che sorpreso, la disinvoltura - non saprei definirla altrimenti - con cui anche esponenti del governo hanno cominciato a discettare pubblicamente sull'ipotesi, ad esempio, di un aumento della tassazione sulle rendite finanziarie.

Il Presidente del Consiglio ha fatto quindi bene a chiudere subito la porta a queste ipotesi. Mi auguro solo che essa sia chiusa sul serio.

Insisto nel dire che, a mio giudizio, i problemi più urgenti da affrontare per restituire a famiglie ed imprese un po' di ottimismo sulle possibile dinamiche di sviluppo del sistema sono tre:

1-                 tutela complessiva del reddito delle famiglie;

2-                 sostegno alle imprese in modo che esse possano ridurre i costi e migliorare il loro livello di competitività;

3-                 una severa, attenta ed innovatrice riqualificazione, per entità e per obiettivi, della spesa pubblica corrente con interventi drastici sulla parte più improduttiva di essa.

Tre problemi in uno e tutti e tre prioritari.

Tutela del reddito delle famiglie. Io non nego la possibilità che, sul fronte dei prezzi, possano essere studiati ulteriori e significativi interventi. Ma perché una simile iniziativa possa avere successo in un mercato dei consumi che è già considerevolmente stagnante, anzi il più stagnante d'Europa, occorre mettere mano ad un combinato di strumenti che, oltre le imprese, coinvolgano anche fattivamente amministrazioni pubbliche centrali e locali, politiche tariffarie e tutta l'area dei costi di base: dall'energia, alle banche, alle assicurazioni, ai servizi di trasporto.

Insomma o ci sarà un programmato, concertato e finalmente coeso intervento su tutta questa tastiera di problemi che oggi incidono pesantemente sul reddito o le iniziative che si assumeranno, su questo versante, rischieranno di essere aleatorie e, in gran parte, viste le condizioni del mercato, ormai inefficaci.

Con un problema in più, quello del rinnovo dei contratti dei lavoratori pubblici e privati già da molto tempo scaduti.

Non è certo mio compito entrare nel merito di questo problema che va affrontato e risolto su ogni singolo tavolo e con una diretta trattativa tra le parti interessate.

Come non discuto sull'esigenza prioritaria che tali rinnovi debbano essere "compatibili" con le risorse che, sul versante pubblico come su quello privato, sono oggi oggettivamente disponibili.

Mi permetto di dire solo che il rinnovo di contratti che riguardano ben otto milioni di famiglie non può restare ancora a lungo appeso nel vuoto perché la mancata soluzione di questo problema aggiunge un'altra cifra di precarietà e di incertezza ad un quadro economico generale che di incertezze e di precarietà soffre già molto di suo.

Certo, ripeto, questo rinnovo deve essere "compatibile" perché, se i soldi non ci sono, non si possono fabbricare o mandarli tutti a debito.

Ma allora mi chiedo perché si è perso un anno e più a discutere di altro e non di questa compatibilità.

Irap. Non c'è imprenditore che da molto tempo e assai prima che intervenisse la Corte di giustizia europea, non abbia avvertito tutta l'assurdità di un'imposta che congloba, nella base imponibile, costo del lavoro ed oneri finanziari.

E che ora, anche perché messi alle strette dall'Unione europea, sia più che opportuno affrontare e risolvere, in concreto, questo problema.

Solo che non ci è ancora chiaro né come, né quando, né in quanti anni si potrà risolvere il problema della copertura delle risorse necessarie, ad esempio, per la depurazione del costo del lavoro dalla base imponibile dell'Irap.

Tanto più a fronte di un rapporto deficit/Pil che, in assenza di misure congiunturali e a causa della minor crescita effettiva – noi stimiamo solo un +0,3 a fronte del +1,2 previsto dal governo - potrebbe, nel 2005, attestarsi intorno al 4,5% imponendo una correzione di tiro, rispetto al tetto del 3,5%, di un punto percentuale di Pil, circa 14 miliardi di euro.

E' la domanda è: quale mix di tagli di spesa e di maggiori entrate occorrerà realizzare per reperire i complessivi 26 miliardi di euro necessari per risolvere entrambi questi problemi?

Un interrogativo che diventa tanto più pressante a causa della natura "federale" di quest'imposta a suo tempo decisa per sostenere, nelle regioni, i carichi di gestione di tutto il comparto sanità.

Come potranno le Regioni sopperire alla mancanza di questi per loro basilari introiti? Mettendo nuove imposte locali o che cosa? Non è chiaro.

Ma, a proposito dell'Irap, c'è dell'altro ed è anche di quest'altro che io qui, con franchezza, vorrei parlare.

L'ipotesi allo studio di depurare dalla base imponibile dell'imposta la componente costituita dal costo del lavoro esclude, infatti, da questo "beneficio" gli oltre due milioni di imprese che, pur non avendo costi da lavoro dipendente, sono del tutto soggetti a questa imposta.

Per queste imprese non cambia nulla. Il carico resta quello di prima.

E' così che possiamo dare sostegno a tutto il sistema di imprese? Non mi pare proprio.

E aggiungo: abolendo la voce costo del lavoro dalla base imponibile di quest'imposta, il 25% delle risorse, cioè circa 4,5 miliardi di euro, finirebbero nelle tasche di sole 700 imprese mentre per le altre resterebbero briciole di beneficio, quasi niente.

Non va bene, non è un tipo di intervento che si può accettare.

Perché quindi questo intervento sull'Irap possa essere davvero funzionale al sostegno di tutto il sistema delle imprese occorre che, oltre alla sterilizzazione del costo del lavoro, vi sia, in parallelo, anche un consistente rafforzamento delle deduzioni forfetarie che serva a definire una sorta di vera e propria no-tax area.

Progetto inverosimile? No, è verosimile e soprattutto indispensabile per quelle imprese che, assai più di altre, producono oggi valore aggiunto.

A conti fatti, per definire questa no-tax area che comprenderebbe oltre 4 milioni e 400 mila imprese, l'80% del totale, basterebbero 1,8 miliardi di euro.

Non ci sono? Ma se si trovano 4,5 miliardi di euro per 700 imprese, non si vede perché non se ne dovrebbero anche reperire 1,8 per il restante 80% del sistema imprenditoriale.

Insomma l'intervento sull'Irap va fatto, ma ci pare indispensabile che il beneficio debba riguardare tutti i settori e le classi dimensionali d'impresa.

In caso contrario, saremmo di fronte ad un'iniziativa non solo palesemente discriminatoria ma anche, per lo sviluppo del mercato, assai controproducente.

Nessuno mette in dubbio la necessità oggi di sostenere le grandi imprese che si trovano in condizioni di particolare difficoltà, ma non possono essere oggi le altre imprese - e mi riferisco, in particolare, a quelle che operano nella grande area del terziario - che già sono costrette a sopportare un insopportabile cuneo fiscale e contributivo, a caricarsi dei pesanti oneri derivanti da questa pur obiettiva esigenza.

Sostenere, ad esempio, le imprese del grande settore del turismo oggi operanti anch'esse in condizioni di crescente difficoltà è un'esigenza altrettanto impellente e non più rinviabile.

Non si può riempire un secchio svuotandone un altro.

Sarebbe - ma mi auguro fortemente che ciò non avvenga - girare in tondo e non risolvere nessuno dei problemi che oggi questo paese ha di fronte.

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