Fipe su Dl Dignità: "Su lavoro a tempo determinato si conferma un approccio sbagliato"

Fipe su Dl Dignità: "Su lavoro a tempo determinato si conferma un approccio sbagliato"

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3 luglio 2018

Il termine "dignità" dovrebbe riguardare non solo i lavoratori dipendenti, ma anche  gli imprenditori, che meritano lo stesso rispetto e considerazione, favorendoli nello svolgimento di attività spesso caratterizzate da difficoltà - economiche ed organizzative - che la crisi ha aggravato. Il provvedimento sul lavoro, purtroppo, non va in questa direzione perché introduce elementi di contrasto alle formule contrattuali di flessibilità di cui le imprese hanno bisogno". Questo il commento del Presidente di Fipe - Federazione Italiana Pubblici Esercizi Lino Enrico Stoppani al via libera al Dl Dignità ricevuto dal Consiglio dei Ministri." Il lavoro a tempo determinato non può essere confuso con la cattiva occupazione, perché molte attività sono (per fortuna) caratterizzate da fisiologici picchi di incremento, che non possono essere diversamente gestiti. Anche riproporre la causale riporta la disciplina dei contratti a termine al passato, - prosegue Stoppani -. Comprendiamo la necessità di tutelare i giovani dal precariato, ma paradossalmente si rischia di crearne di nuovo. Inoltre decretare così nel dettaglio queste materie svuota di significato la contrattazione settoriale: si impone un abito uguale a settori differenti con esigenze fortemente disomogenee". "Ridurre poi la durata massima da 36 a 24 mesi, creando ulteriore rigidità, ed eliminare le causali legate alla stagionalità, rappresenta un fattore estremamente penalizzante per le imprese del nostro settore che operano nel campo turistico. Così facendo si impone una disciplina del lavoro più rigida, creando problemi di natura organizzativa e favorendo la concorrenza internazionale". "Un altro rischio riguarda la nuova definizione di lavoratore subordinato riportata nell'articolo 1 della bozza del Decreto sui rider, secondo la quale sarebbe considerato tale chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro, manuale o intellettuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima, dell'imprenditore, anche senza predeterminazione dell'orario di lavoro, se vi sia la destinazione al datore di lavoro del risultato e se l'organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia propria ma del datore di lavoro". "Si tratta di un'accezione ampia e di rischiosa interpretazione - conclude Stoppani -, che fa venire meno la certezza del diritto e pone rischi giurisprudenziali di cui non c'è assolutamente necessità". Dagli ultimi dati della Fipe emerge come i contratti a termine siano una fetta consistente dell'occupazione nei pubblici esercizi. Il 20% dei lavoratori risulta assunto con questa tipologia contrattuale. Si tratta di oltre 144 mila persone. La quota più rilevante di assunzioni a tempo si registra per ristoranti e bar, anche se in termini di incidenza percentuale sono i comparti dell'intrattenimento e dei servizi di spiaggia a mostrare le quote più alte.  Dei 144 mila a termine, infatti, quasi 85 mila sono impiegati nei ristoranti (20,7%), oltre 40 mila nei bar (19,2%), circa 4 mila negli stabilimenti balneari (33,6%) e 1.400 nelle discoteche (35,2%). Il resto trova posto nelle mense, nei catering e nella fornitura di pasti preparati. Per il presidente della Federazione italiana dei pubblici esercizi "la stessa riproposizione della causale ha il significato di riportare al passato la disciplina dei contratti a termine. A ciò - prosegue - si deve aggiungere che decretare così nel dettaglio queste materie svuota di significato la contrattazione settoriale imponendo un abito uguale a comparti differenti con esigenze fortemente disomogenee".

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