La valutazione di Confcommercio sul DPEF

La valutazione di Confcommercio sul DPEF

Una delegazione di Confcommercio è stata ascoltata oggi, 14 luglio, dalle Commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato nel quadro delle audizioni previste per l'esame del DPEF.

Nell'occasione Confcommercio ha presentato il documento "Contributo al DPEF  2000-2003" e il Presidente Sergio Billè ha svolto un intervento di quadro di cui si riportano i passi più significativi.

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14 luglio 1999

L'attenta lettura della definitiva stesura del documento di programmazione economica e finanziaria accresce purtroppo e motiva di più le preoccupazioni, da noi già  espresse in più occasioni, sui programmi del Governo non solo per affrontare i problemi di carattere congiunturale che il nostro paese ha di fronte ma anche per cominciare a realizzare, sia pure con gradualità, quelle riforme di carattere strutturale che sono ormai diventate conditio sine qua non per un rilancio non effimero di tutto il sistema Italia in modo da renderlo competitivo sia sul mercato europeo che su quello mondiale.

E' un documento che preoccupa perché ha lasciato troppe pagine in bianco e derubricato o rinviato problemi che, invece, avrebbero richiesto, già in questa sede, una sollecita e chiara enunciazione e definizione.

Le pagine bianche che più ci preoccupano sono quelle che riguardano la riforma delle pensioni, gli interventi necessari per dare più flessibilità al mercato del lavoro e la pressione fiscale.

C'è chi sostiene che, soprattutto per quanto riguarda i primi due temi, le pagine, nel documento, ci sono, ma sono state scritte, per motivi di opportunità, con inchiostro simpatico in attesa di chiarimenti e di verifiche che si potranno fare solo in autunno.

Può darsi , ma è certo che il rinvio ulteriore  di questi problemi accentua le insicurezze e le frustrazioni di un mercato che da troppo tempo attende che qualcosa cambi e cambi nella direzione giusta.

Del resto, non si capisce perché - parlando di rilancio e di rimodellazione della concertazione con le parti sociali - debba considerarsi possibile a settembre quel che non sembra possibile oggi.

Non si capisce insomma perché soli 60 giorni facciano la differenza per questioni ingombranti che, come sostengono ormai in coro il Commissario europeo, Monti, la Banca Centrale europea, la Corte dei Conti e persino l'Istat, non dovrebbero aspettare, per essere affrontate,  nemmeno un giorno.

Difatti questo rinvio è, secondo noi, un errore per tre motivi: procrastina fino alla primavera del 2000 decisioni ed interventi che, in autunno, in un modo o nell'altro, avrebbero potuto già avere conferme e fissare presupposti attuativi; relega  il mercato in una  frustrante posizione di stand-by; non dà forza all'azione di governo, anzi la indebolisce.

Ed è  quindi al Governo che rinnoviamo il nostro invito perché non si perda altro tempo: tutti, noi per primi, siamo disposti a rinunciare alle ferie e a discutere di queste cose sotto il solleone e non comprendiamo il motivo per il quale altre parti sociali , se c'è la volontà di farlo, non possano fare ora altrettanto.

Oppure la data prefissata per la nuova concertazione non è il 30 ma il 31 settembre cioè una data destinata a restare purtroppo solo un fatto virtuale?

L'esame del documento di programmazione economica e finanziaria non può prescindere da un'analisi della situazione dell'economia mondiale che, per fortuna, dà qualche timido segnale di ripresa che allontana quel pericolo di avvitamento recessivo che, fino a qualche tempo fa, sembrava vicino. Anche la debolezza dell'euro nei confronti del dollaro può avvantaggiare i mercati dell'Europa e le nostre esportazioni. Non invece le nostre importazioni e soprattutto quelle, come il petrolio, legate all'area del dollaro.

Resta però il fatto che la discesa dell'euro è legata al sempre precario tasso di credibilità di questa nuova moneta  a causa delle difficoltà che i paesi europei stanno incontrando sia nella lotta alla disoccupazione sia nell'allestimento di quelle riforme strutturali che dovrebbero portare ad una riduzione della spesa pubblica e quindi della pressione fiscale. E non ci consola il fatto che il problema non riguardi soltanto noi ma anche paesi come la Germania.

Il tasso di crescita della nostra economia previsto dal documento sia per il '99 che per il '2000 ci sembra ottimistico. Secondo le stime del nostro Centro Studi difficilmente, infatti, l'aumento del nostro prodotto interno lordo supererà lo 0,9% per l'anno in corso e il 2,4% per l'anno prossimo, come ci sembra difficile che i consumi interni possano , per il '99, superare l'1,2% e la spesa delle famiglie possa crescere di una percentuale maggiore.

La stagnazione cioè di fatto continua, finisce col diventare endemica, tarpa le ali a quello sviluppo di cui il nostro paese ha assoluto bisogno. Per questo rinviare all'autunno la discussione su importanti questioni strutturali come la riforma delle pensioni ci sembra un errore.

Sul fronte degli investimenti ci sembra che il Dpef preveda una politica di solo contenimento della spesa rendendo disponibili per il rilancio dell'economia solo 3500 miliardi cioè un po' più della metà di quelli fatti dalla Fiat per la Punto, troppo poco per un mercato che, fermo da più di due anni, deve ripartire in fretta e carico di prospettive.

Se non è prevista un'accelerazione adeguata per gli investimenti pubblici, collante necessario anche per rilanciare quelli privati, non ci sono nemmeno, nel Dpef, stimoli sufficienti per il rilancio dei consumi che restano il vero tallone d'Achille oggi della nostra economia. La lieve diminuzione della pressione fiscale prevista per i redditi più bassi che, per altro, è ancora solo a livello di progetto, non sposta l'entità dei problemi nè li ridimensiona.

Anche per quanto riguarda il mercato del lavoro e il progettato aumento del suo arco di flessibilità il documento risulta carente rispetto a quelle che sono le oggettive aspettative del mercato. Occorrerebbe eliminare o almeno sospendere per un periodo congruo di tempo quelle norme vincolative che impediscono alle piccole e medie  aziende di crescere e di rafforzare le proprie strutture, ma il problema appare rinviato a circostanze più favorevoli. Quali non si sa. Invece sarebbe importante deregolamentare subito causali, limiti percentuali e durata dei contratti a termine, diminuire le rigidità esistenti per quando riguarda il lavoro in uscita, liberalizzare, in sintonia con il contesto europeo, il lavoro interinale togliendo i troppi vincoli che hanno appesantito l'impianto impedendo l'effettivo decollo dell'istituto. E ancora: aprire il fronte ai cosiddetti lavori atipici evitando di estendere a tali istituti innovativi gli elementi di rigidità che esistono nel lavoro subordinato, allargare le potenzialità del part-time dando concreta attuazione e relativa copertura finanziaria alla staffetta giovani-anziani prevista dalla legge 144, regolamentare in fretta, con il concorso delle Regioni, lo strumento dell'apprendistato.

Infine, per quanto riguarda i contratti di formazione lavoro, resta valida la nostra richiesta di non applicazione delle sanzioni previste dalla Commissione Europea, per i periodi pregressi, dato che le parti sociali non sono state in alcun modo informate preventivamente sull'andamento della procedura di infrazione e sulle conseguenze che essa determina.

Per quanto riguarda i problemi dello Stato sociale alcune osservazioni ci sembrano d'obbligo. La prima riguarda la sanità e la riforma Bindi che, a nostro giudizio, non risolve i problemi ma, in qualche modo, li aggrava perchè la riappropriazione da parte dello Stato del sistema sanitario avrà sicuramente alti costi senza riuscire a dare, nemmeno nel medio periodo, sufficienti benefici.

La verità è che, con il nuovo sistema, l'utente sarà sottoposto ad una triplice tassazione: quella alla fonte, di cui conosciamo la pesante entità, quella del ticket che sarà sicuramente esteso ad altre categorie di cittadini, quella infine dell'ulteriore esborso necessario per ricorrere a prestazioni sanitarie che le strutture pubbliche o non saranno in grado di fornire o forniranno a livelli insufficienti.

Il sistema sanitario in mano allo Stato poteva funzionare quando la spesa pubblica non superava il 20% del Pil, ma ora che supera il 50% il sistema rischia di avvitarsi. Si è già avvitato.

Anche sul fronte delle tariffe pubbliche vi sono oggi motivate preoccupazioni. L'annunciato aumento delle tariffe ferroviarie è una di esse. E' vero che le tariffe italiane sono più basse di quelle francesi o tedesche ma è anche vero che non è in nessun modo paragonabile con la nostra l'efficienza dei servizi ferroviari offerti da questi due paesi. Preoccupano inoltre le difficoltà che incontra tuttora il management nel realizzare quel piano di ristrutturazione globale delle ferrovie ritenuto indispensabile per ridare efficienza all'azienda.

Sarebbe imperdonabile, invece, che l'aumento delle tariffe servisse solo a tamponare falle di bilancio e a mantenere ancora in vita strutture obsolete.

Arrivo al punto dolente delle pensioni, altra pagina bianca di questo documento. Rinviare al 2001, come vorrebbero i sindacati, la verifica della riforma ci pare incongruo e rischioso. Primo, perchè il passaggio da quello retributivo a quello contributivo - previsto dalla riforma Dini - ci pare eccessivamente graduale ed incapace di risolvere il problema in tempi compatibili con le nuove sfide che il mondo imprenditoriale è chiamato a sostenere, secondo, perchè bisogna prepararsi fin da ora all'impatto traumatico che ci sarà nel 2005 quando supererà la soglia pensionabile tutta la generazione degli anni '60. Occorre pertanto raffreddare fin da ora la spesa pensionistica impostando una diversa articolazione delle coperture finanziarie in modo da garantire non soltanto l'equilibrio del sistema ma da ridurre anche gli oneri che gravano sulla produzione liberando risorse capaci di favorire investimenti e occupazione.

Le nostre proposte  possono essere così riassunte.

  1. Passare già dal 1 gennaio 2000 al sistema contributivo per tutti i lavoratori al fine di rapportare l'importo pensionistico alla contribuzione effettivamente versata.
  2. Rivedere il meccanismo di accesso alle pensioni di anzianità mediante interventi diretti a ridurre il periodo di anticipazione del trattamento pensionistico. A tal fine, potrebbe essere prevista per tutti i lavoratori, uomini e donne, una soglia che consenta l'accesso alla prestazione solo al compimento del 60° anno di età oppure al raggiungimento dei 40 anni di contribuzione. Tale ipotesi comporterebbe una riduzione media annua del numero delle prestazioni liquidate dall'Inps dell'ordine di 230 mila unità nel periodo 2000-2005 con un risparmio complessivo di spesa di circa 42 mila miliardi.

Da tali interventi  dovrebbe derivare una stabilizzazione della spesa pensionistica nel medio periodo che consentirebbe un recupero di entrate da destinare anche a forme di finanziamenti di carattere solidaristico dirette a realizzare una più equa ripartizione degli oneri derivanti dalle politiche previdenziali del passato.

Con due interventi.

Il primo riguarderebbe l'introduzione di un contributo di solidarietà intergenerazionale a carico dei pensionati in essere. Ciò partendo dalla considerazione che il calcolo con il sistema retributivo comporta, rispetto a quello contributivo, un maggior rendimento pensionistico stimabile mediamente intorno al 20% e che, prendendo come riferimento l'attuale spesa pensionistica di 270 mila miliardi annui, il sistema sopporta una maggiore spesa di oltre 54 mila miliardi sempre annui. Una fase di riequilibrio del sistema non può , quindi, prescindere da una misura solidaristica da applicare ai trattamenti liquidati con il sistema retributivo. Il secondo prevede la costituzione di un apposito fondo nel quale far affluire tutte le risorse oggetto dei processi di solidarietà allo scopo di gestirle in modo da garantire, nel tempo,un crescente accumulo di ricchezze.

Tenuto conto del minor livello di copertura pensionistica connesso all'introduzione del contributo e al metodo contributivo, il nuovo sistema dovrebbe prevedere un deciso sviluppo della "previdenza complementare" a capitalizzazione, disciplinata con formule che ne elimino, almeno per i lavoratori assunti dopo il 31 gennaio 1995, gli attuali elementi di volontarietà.

Ecco un modo - non l'unico certo ma sicuramente tra i possibili - per liberare risorse, contenere il costo del lavoro e  ridurre anche in modo congruo le aliquote a carico dei datori di lavoro.

Se queste ultime fossero ridotte del 5% passando dal 23,81% al 18,81% , vi sarebbe un minore gettito contributivo di circa 16.500-17.000 miliardi che potrebbe però essere compensato, in parte, mediante i risparmi pensionistici ottenuti nel settore privato e in parte, almeno per i primi tre anni, con  il parziale trasferimento dell'onere alla fiscalità generale con interventi sull'Irap e sui consumi energetici.

In conclusione , la modifica del sistema innescherebbe un circolo virtuoso che consentirebbe un aumento dei consumi, della capacità produttiva e quindi , in ultima analisi, anche delle entrate dello Stato.

Se le Confederazioni sindacali hanno proposte diverse, le avanzino e noi le esamineremo con la dovuta attenzione. Ma non avanzarne nessuna, far finta che il sistema pensionistico possa reggere così com'è fino al 2001, rinviare tutto perchè si tratta di un problema ingombrante, ci sembra sbagliato perchè non garantisce nè il sindacato, nè i lavoratori, nè i pensionati degli anni 2000, nè il sistema paese che, per vivere meglio, ha bisogno di cambiare e di cambiare ora.

Altri due temi prima di concludere. Il primo riguarda la pressione fiscale che , di fatto, se si parla, com'è corretto fare, di pressione complessiva e non soltanto di pressione erariale, non sta diminuendo ma anzi aumentando. E' in aumento la carbon tax, sono alle viste le addizionali che i Comuni, a partire dal 2000, e le Regioni dall'anno successivo, potranno applicare. Per non parlare degli effetti che produrrà, a breve, la revisione degli estimi catastali e l'aumento dell'Ici.

A questa pressione complessiva che opprime il paese occorre mettere un tetto, un vincolo, qualcosa che blocchi quel circuito perverso che costringe oggi l'operatore a vedere sempre aumentare i costi e diminuire le entrate. E' uno dei motivi di fondo per cui l'economia ristagna, non si fanno investimenti, non si crea nuova occupazione. Come dovrà essere fatto qualcosa di concreto per impedire che si rovesci sulle spalle dei contribuenti in regola con il fisco tutto il peso di quei 300 mila miliardi che sfuggono ad ogni controllo sia a causa del lavoro sommerso sia a causa dell'evasione fiscale.

Il secondo e ultimo tema riguarda il Mezzogiorno che il Dpef mi sembra trascuri fin troppo. Primo, Sviluppo Italia, la struttura creata nei mesi scorsi, non risulta ancora essere operativa nè per quanto riguarda la  promozione nè per quanto riguarda gli investimenti. Il tempo passa e la crescita, nel Sud, non supera il 2% mentre, per essere accettabile , dovrebbe essere di almeno il 4%. La verità è che le imprese del Sud sono costrette, per operare, a sopportare costi maggiori di quelle del Nord. Primo, perchè hanno costi di produzione ed anche di commercializzazione assai maggiori, secondo, perchè resta scarso il  livello di qualificazione delle forze lavoro, cosa che spesso rende scarsamente competitivi i prodotti. Terzo, perchè  manca, ai fini produttivi, il soggetto pubblico locale come dimostrano gli scarsi risultati raggiunti dai patti territoriali, dai contratti d'area e dalla contrattazione programmata.

Quarto, perchè le infrastrutture continuano ad essere fatiscenti impedendo, in buona parte dei casi, di dar corpo a progetti imprenditoriali rivolti soprattutto all'area turistica.

Qualche considerazione sugli incentivi alle piccole e medie imprese e a quelle, in particolare, che operano nel settore dei servizi.

Ci sembra positivo il fatto che il presidente del Consiglio D'Alema e il ministro del Tesoro, Amato abbiano preso atto della grave carenza che fino ad oggi ha contraddistinto la politica del Governo verso questo settore che è poi l'unico, come dimostrano i più recenti dati dell'ISTAT, a creare nuovi posti di lavoro. Per questo ci attendevamo, nel DPEF, una formulazione di programmi e una definizione di strategie che andassero al di là della soglia di una semplice enunciazione. Se è vero, infatti, che è da questo settore e non più da altri che possono venire gli stimoli per un rilancio delle nostre attività produttive, l'aspettativa non può che essere quella di interventi a breve e di incentivi che consentano: a) una maggiore capitalizzazione di tali aziende ancora alle prese con una politica del credito poco orientata e disponibile nei loro confronti; b) una revisione degli ammortizzatori sociali da troppo tempo promessa ma poi mai realizzata; c) minori oneri fiscali e previdenziali che stimolino investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro.

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