Piccola Italia, il mondo ormai è troppo grande

Piccola Italia, il mondo ormai è troppo grande

"Alla crescita dimensionale è necessario associare la crescita della produttività per addetto dentro le micro imprese a parità di taglia. Quest'ultimo risultato si può ottenere rimuovendo i gap di contesto che opprimono tutte le imprese, con danno proporzionalmente maggiore per le micro".

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10 giugno 2015

Negli anni 80 si celebrava quasi quotidianamente il mito delle piccole imprese italiane: "Piccolo è bello", il titolo del libro di E. F. Schumacher, veniva spesso utilizzato per descrivere la formula vincente del tessuto imprenditoriale del nostro Paese. Poi ci si è accorti che piccolo non era poi così bello. E che crescere, sia come economia sia come impresa, è l'unico esito possibile per creare un po' di benessere ed esercitarsi nella solidarietà. Cos'è cambiato negli ultimi trent'anni? Molto, ma per ragioni di sintesi utilizziamo solo un'immagine compatta: eravamo un grande paese in un mondo piccolo (con pochi player rilevanti, cioè), oggi siamo un piccolo paese in un mondo grande. Inoltre, volendo essere precisi, alla radice del conflitto tra l'idea del "piccolo è bello" e la realtà di una crescita asfittica nel medio termine, c'è il fatto che l'Italia non è mai stata il paese delle PMI (piccole e medie imprese): eravamo e siamo rimasti il paese delle micro imprese (fino a 9 addetti, mentre la taglia è piccola tra 10 e 49 addetti e media tra 50 e 249). Secondo stime della Commissione europea oggi la quota di occupati nelle micro imprese in Germania è del 18,7%, in Italia del 45,7%. Di fronte a questa realtà le scuole di pensiero, affaticate nella ricerca di soluzioni, si dividono: la prima sostiene che crescere è l'unica possibilità, l'altra - cui apparteniamo - fa invece rilevare che alla crescita dimensionale è possibile, ed è necessario, associare la crescita della produttività per addetto dentro le micro imprese a parità di taglia. Quest'ultimo risultato si può ottenere rimuovendo i gap di contesto che opprimono tutte le imprese, con danno proporzionalmente maggiore per le micro: eccesso di pressione fiscale, lentezza e inefficacia della giustizia civile, complessità di accesso a infrastrutture di rete, abusivismo e microcriminalità, costi della burocrazia per chi fa business. Qui non si deve scambiare la noia per ovvietà: l'elenco è fastidioso perché noto e ripetuto ma non è per niente ovvio, visto che appare straordinariamente difficile compiere il pur minimo passo per emendare il sistema dai suddetti conclamati difetti. Veniamo all'importante questione della crescita dimensionale. Il processo può essere favorito da incentivi alla patrimonializzazione delle piccole imprese. Un primo tentativo in tal senso è stato fatto con l'ACE, l'Aiuto alla Crescita Economica, introdotto dal Governo Monti nel 2012. La formula era semplice e consisteva nel riequilibrare il trattamento fiscale tra le imprese che si finanziano con debito (i cui interessi sono deducibili) e quelle che si finanziano con capitale proprio mediante una riduzione dell'imposizione sui redditi (ma non dell'Irap) di queste ultime. Peccato che l'ACE è un abito fatto su misura per le grandi imprese. La stessa sigla in realtà significa Allowance for Corporate Equity, cioè sostegno al capitale proprio nelle società la cui responsabilità patrimoniale è scissa da quella dei soci (geniale l'artificio linguistico-enigmistico). Ora un nuovo tentativo è all'orizzonte attraverso l'introduzione nel nostro ordinamento fiscale dell'IRI, l'Imposta sul Reddito d'Impresa, prevista nell'ambito della Legge Delega di Riforma fiscale. L'istituzione dell'IRI - oltre che rendere neutra la tassazione rispetto alla forma giuridica dell'impresa (mettendo, quindi, l'imprenditore nelle condizioni di organizzarsi nelle forme giuridiche che ritiene più opportune senza vincoli di natura fiscale) - ha lo scopo di favorire la capitalizzazione delle piccole imprese non costituite sotto forma di società di capitali in quanto il reddito che l'imprenditore lascerà in azienda, invece di essere assoggettato ad aliquota progressiva Irpef, verrà tassato ad aliquota proporzionale, pari a quella prevista per le società di capitali, ossia al 27,5%. E' chiaro che l'applicazione dell'IRI presuppone la tenuta della contabilità ordinaria e, quindi, è uno strumento idoneo solo a quelle piccole imprese più strutturate, lasciando fuori la miriade di micro e piccole imprese che sono in contabilità semplificata. Come per l'ACE, quindi, non si pensa a spingere le micro imprese nel segmento delle piccole ma d'incentivare quelle che già sarebbero in grado di svilupparsi dimensionalmente da sole. Questo è un difetto non tanto del provvedimento quanto dell'impostazione culturale su cui si poggia, che considera le micro imprese non una risorsa ma un male necessario: tanto vale non occuparsene. E allora tre rapidi commenti: bisognerebbe provare a fare un'IRI più attraente, eventualmente cosi attraente da spostare imprese in contabilità semplificata - senza bilancio - in unità con contabilità ordinaria, proprio per approfittare del provve dimento; il quale potrebbe, per esempio, essere modulato opportunamente nel tempo, con limiti per l'adozione da parte delle imprese ma senza vincoli per lo sfruttamento una volta adottato. Poiché il beneficio di una crescita dimensionale sarebbe di tipo sistemico, c'è un interesse a identificare soglie d'imposizione proporzionale anche al di sotto dell'attuale 27,5%. Infatti, non sfugge che l'adozione di una contabilità ordinaria farebbe rientrare in gioco l'ACE, secondo una strategia combinata di due interventi per ottenere un risultato: maggiore struttura per le micro e piccole imprese, più trasparenza nella gestione, più capitale proprio e probabilmente, un giorno, più crescita.

Mariano Bella (Direttore Ufficio Studi Confcommercio) e Vincenzo De Luca (Direttore Settore Fiscale Confcommercio)

Da "Cronache del garantista" del 10 giugno 2015

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