IL TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL PRESIDENTE SANGALLI

IL TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL PRESIDENTE SANGALLI

p:333 D:6-7-2006 T:ASSEMBLEA CONFCOMMERCIO

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6 luglio 2006
RELAZIONE DEL PRESIDENTE SANGALLI

Assemblea Confcommercio: l’intervento del presidente Carlo Sangalli

 

Grazie al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per il messaggio con il quale ha formulato i Suoi auguri per lo svolgimento dei lavori di questa Assemblea. Auguri che, per parte nostra, ricambiamo di cuore all’inizio dello svolgimento del Suo altissimo incarico.

 

Così come i nostri migliori auguri di buon lavoro vanno al nuovo Governo e al nuovo Parlamento.

 

La crescita lenta

 

Anche tenendo conto del positivo andamento del primo trimestre, il nostro Paese registrerà, nel 2006, una crescita del PIL di poco superiore all’1%, con una prospettiva di rallentamento nel 2007, in Italia come in Europa.

 

Dunque, l’economia crescerà poco in Europa e davvero troppo poco in Italia.

 

Bisognerà quindi misurarsi, nel nostro Paese, con tutta la difficoltà di costruire una politica economica che tenga saldamente insieme il tempo del rigore della finanza pubblica con quello delle scelte per la crescita e lo sviluppo.

 

E’ difficile. Ma lo si può fare. E, soprattutto, lo dobbiamo fare.

 

Anzitutto â€" io penso â€" incalzando l’Europa, affinché si reagisca ad ogni forma di concorrenza sleale e perché - nell’ambito della revisione della strategia di Lisbona â€" emerga comunque un progetto forte di crescita e di sviluppo, rispetto al quale ciascuno sia chiamato a fare la propria parte. Tutta e sino in fondo.

 

Senza questa capacità di fare sistema, competere è davvero difficile. E lo è particolarmente â€" per usare una celebre metafora - per il “calabroneâ€� dell’economia italiana.

 

 

 

La terziarizzazione dell’economia italiana

 

Sulla cui particolare “anatomia�, vale però la pena di soffermarsi un attimo. Per segnalare, almeno, un faticoso e ancora incompiuto “cambiamento di pelle� delle imprese italiane, contraddistinto da due tendenze di fondo: la crescente terziarizzazione e la conferma di una competitività possibile, pur nei settori apparentemente tradizionali del made in Italy.

 

Imprese e distretti “cambiano pelleâ€�. E lo fanno con un’integrazione tra produzione, commercializzazione e servizi â€" tecnologici e logistici, di consulenza e marketing, di design e di comunicazione â€" che mira ad accrescere il valore aggiunto delle produzioni e ad allargare, attraverso i servizi, la gamma complessiva di offerta dell’economia italiana nel mercato globale.

 

Così stanno le cose nell’economia reale del nostro Paese.

 

E, stando così le cose, che senso ha riproporre, sul terreno delle scelte di politica economica, l’alternativa secca tra il primato storico di un puro modello manifatturiero, che non esiste più, e la prospettiva di un’economia terziaria e postâ€"industriale?

 

Più semplicemente â€" e più concretamente â€" io penso che, invece, si debba lavorare per accompagnare quanto sta già avvenendo in termini di integrazione tra sistema manifatturiero e sistema dei servizi.

 

Del resto, si tratta di quanto è già accaduto nelle economie mature che, in questi anni, hanno galoppato di più nello scenario della globalizzazione, proprio per la spinta propulsiva dell’incremento della produttività dei servizi.

 

Aumentare la produttività dei servizi

 

L’aumento della produttività dei servizi è una questione alla quale non ci sottraiamo e rispetto alla cui soluzione vogliamo, invece, portare il nostro contributo, tutto il nostro contributo.

Perché trovi ora concreta attuazione â€" con le scelte che il Governo farà â€" quanto scritto nel programma dell’Unione: “una moderna e più estesa forma di ‘politica industriale’ ha oggi un ruolo cruciale nel sostegno allo sviluppo economico. Si tratta di una ‘politica industriale’ intesa in un’accezione più ampia, dovendosi attribuire alla politica dei servizi un ruolo non inferiore alla politica industriale in senso strettoâ€�.

 

Il terziario e l’innovazione

 

L’obiettivo di aumentare la produttività richiede un forte impegno per favorire processi di innovazione diffusa nel terziario: nel commercio, nel turismo, nei trasporti, nei servizi alle aziende e ai cittadini.

 

E’ un’innovazione tecnologica, perché le tecnologie della rete sono una straordinaria opportunità, affinché ciascuna impresa, anche la piccola impresa, possa consolidare ed ampliare il mercato di riferimento, migliorare il servizio e il rapporto qualità/prezzo offerto ai consumatori, accrescere la redditività.

 

Ed è anche un’innovazione non tecnologica, fatta di creazione di nuovi format e di nuove formule commerciali, di innovazione organizzativa e manageriale.

 

L’una e l’altra tipologia di innovazione â€" quella tecnologica e quella non tecnologica â€" possono, in definitiva, irrobustire il modello di business delle imprese del terziario, rafforzandone la capacità di confronto con le sfide della concorrenza.

 

Per praticare questo modello di innovazione, occorrono politiche attive.

 

Occorrono, cioè, regole, strumenti e risorse, tra cui la possibilità di ricorrere ad un credito d’imposta dedicato o ad ammortamenti anticipati degli investimenti. Così come servono rapporti tra banca e impresa che consentano di costruire risposte compiute e agibili a questo fabbisogno di innovazione.

 

 

 

Banca e impresa

 

E’ un terreno sul quale c’è, ancora oggi, molto da lavorare. Tanto per le imprese, quanto per le banche. E, rispetto al quale, molto potrebbe essere fatto â€" anche nella prospettiva dei parametri di “Basilea 2â€� e delle nuove metodologie di rating creditizio â€" attraverso la valorizzazione e il rafforzamento dei consorzi fidi.

 

Quel che, oggi, chiediamo al sistema bancario è di costruire insieme una più avanzata collaborazione con le imprese italiane, in particolare con le piccole e le medie imprese.

 

Una collaborazione che consenta, tra l’altro, di apprezzare - di più e con minori difficoltà - le idee innovative e la serietà del progetto aziendale, piuttosto che la solidità delle garanzie patrimoniali.

 

Accompagnando una spinta non sopita all’autoimprenditorialità, che, anche in questi anni, ha visto protagonisti, in particolare, i giovani e le donne.

Anche per questo, è necessario che i processi di ristrutturazione del nostro sistema creditizio e l’ingresso di nuovi operatori nel mercato italiano avvengano sotto il segno del rafforzamento della concorrenza e dell’orientamento alla riduzione del costo di prodotti e servizi, oltre che del loro miglioramento qualitativo.

 

Il commercio

 

L’aumento di produttività richiede anche regole di apertura dei mercati e concorrenza.

 

 Come, peraltro, si è già largamente e sostanzialmente fatto â€" fin dal 1998, con la riforma “Bersaniâ€� â€" per la distribuzione commerciale. Ne è testimonianza la ristrutturazione profonda del settore, certificata da un turnâ€"over di chiusure e di nuove aperture di decine di migliaia di imprese all’anno.

 

Ne sono testimonianza i dati ISTAT relativi all’andamento dei prezzi finali praticati ai consumatori per le principali categorie di beni commercializzabili.

 

Analisi della BCE sui dati di contabilità nazionale segnalano inoltre che, nel periodo 2001/2004, la distribuzione commerciale â€" concorrenziale per il pluralismo imprenditoriale che la contraddistingue strutturalmente, pluralismo di marchi e di insegne, di scale dimensionali e di formati organizzativi â€" ha ridotto i propri margini operativi.

 

In sintesi, dunque, la concorrenza ha agito in tutto il sistema distributivo: nel dettaglio indipendente come nella grande distribuzione e nella distribuzione organizzata.

 

Grandi famiglie del mondo del commercio â€" queste ultime â€" che, attraverso la scelta di Federdistribuzione di rinnovare il suo patto associativo con la nostra Confederazione, confermano il ruolo di Confcommercio come casa comune di tutto il sistema commerciale operante in Italia.

C’è ancora del lavoro da fare. Per coordinare l’azione delle Regioni sul terreno del cosiddetto “federalismo commerciale� e per sviluppare l’integrazione qualitativa tra urbanistica generale e urbanistica commerciale.

 

Ci sono gli strumenti istituzionali per farlo e, soprattutto, c’è sempre lo spazio politico per una concertazione, che coinvolga â€" anche su questo terreno â€" Governo, Regioni ed Enti locali, consumatori, lavoratori ed imprese.

 

C’è sempre questo spazio, Signor Ministro Bersani. Perché discutere e confrontarsi sulle regole dell’attività d’impresa e sulle scelte di apertura dei mercati è aspetto imprescindibile di una concertazione che si proponga di agire concretamente per il perseguimento degli obiettivi generali del risanamento, dell’equità, dello sviluppo.

 

Noi, per parte nostra, vogliamo portare il nostro contributo al raggiungimento di questi obiettivi. E’ il contributo di chi, ogni giorno, fa impresa e si confronta con i cambiamenti del mercato e con le esigenze dei consumatori. E pensa, dunque, di avere legittimamente qualcosa da dire, quando si discute di liberalizzazioni.

 

Ecco, questo è un punto sul quale dobbiamo intenderci. Perché la concertazione non può essere un metodo ad intermittenza o a corrente alternata, che con alcuni si pratica e con altri no. Perché pensiamo che sia giusto consentire alle forze sociali di partecipare alla formazione delle scelte e di assumere impegni conseguenti in ragione di ciò che esse rappresentano nell’economia reale del Paese. Perché concertare anche con le Regioni e gli Enti locali è un buon modo per evitare l’innescarsi di polemiche e di ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitti di competenza.

 

Valgano â€" queste osservazioni â€" a futura memoria. Ma intanto, caro Ministro, noi Ti chiediamo di aprire con urgenza un tavolo di lavoro e di confronto sul decreto in materia di liberalizzazioni.

 

Con spirito costruttivo e senza pregiudizi, riteniamo, infatti, che siano possibili modifiche e miglioramenti a vantaggio di tutti.

Fermo restando, naturalmente, che, in una corretta concertazione, non ci sono mai poteri di veto e che spetta al Governo e al Parlamento la responsabilità delle decisioni finali.

 

 Il turismo

 

Il turismo è una grande risorsa per il Paese. Forse, la sua più grande risorsa.

 

Per questo abbiamo chiesto una governance del settore, coerente con le sue potenzialità. E, per questo, abbiamo poi apprezzato la scelta di incardinare nel Ministero dei Beni Culturali la delega in materia.

 

E’, naturalmente, un punto di partenza: per risolvere â€" dopo la proroga già intervenuta - la questione degli aumenti esponenziali dei canoni demaniali; per dar seguito agli impegni in materia di detraibilità IVA per il turismo congressuale; per l’allineamento delle aliquote IVA per il turismo italiano ai livelli più competitivi praticati da altri Paesi europei.

 

Ma, più in prospettiva, vorremmo che fosse l’occasione affinché tutti i protagonisti della governance del turismo italiano â€" Ministero, Regioni, Agenzia, Enti locali, lavoratori ed imprese â€" condividessero una strategia di qualificazione della nostra offerta turistica.

 

Una strategia alimentata da un’opzione forte per il marketing territoriale della destinazione Italia e da un complessivo salto di qualità tecnologico e di rete dell’organizzazione, del funzionamento e della promozione di questa offerta.

 

Una tecnologia di rete â€" diffusa e partecipata â€" che consenta, prima e dopo l’esperienza di viaggio in Italia, di profilare attese ed esigenze di consumatori sempre più diversificati e di rispondervi con un’adeguata articolazione dell’offerta, all’interno della ricerca del miglior rapporto qualità/prezzo.

 

Con la consapevolezza â€" aggiungo â€" di quanto sia complessa la costruzione del servizio dell’offerta turistica. Perché essa coinvolge tutti gli elementi â€" infrastrutturali e relazionali â€" che definiscono, nel loro insieme, l’identità territoriale e la sua accessibilità: efficienza e costo dei trasporti e dei servizi alberghieri e di ospitalità, sicurezza, qualità e fruibilità del patrimonio ambientale e culturale, tutela e promozione della qualità e della tipicità dei sapori e del commercio, professionalità e formazione.

 

Innovazione e marketing territoriale: sono le gambe fondamentali di una politica per il commercio e per il turismo, che si proponga di accrescerne la produttività e di coinvolgere questi fondamentali settori economici nel più ampio disegno di realizzazione di una leadership italiana del capitalismo culturale e dell’economia dell’esperienza.

 

Puntare alla leadership italiana del “capitalismo culturale�

 

Esiste ormai una ricca letteratura che insiste sullo straordinario potenziale dell’identità del nostro Paese: un’identità definita dal nostro patrimonio culturale, storico ed ambientale, oltre che dal modo tipicamente italiano di vivere e anche di consumare.

 

E’, tra l’altro, una leva ancora largamente inesplorata per il miglioramento dell’export e per l’internazionalizzazione del nostro sistema dei servizi.

 

Perché la pizza, i caffè e le piazze sono parti della nostra identità. Ma “Pizzaâ€"Hutâ€� e “Starbucksâ€� non sono nati in Italia. E le innumerevoli repliche del modello della piazza italiana che â€" un po’ ovunque, in giro per il mondo â€" costituiscono la frontiera organizzativa più avanzata di centri, parchi e distretti commerciali, vedono poco coinvolti capitali, imprese e imprenditori italiani.

 

Si possono “copiare� pizza, caffè e piazze. Ma, per fortuna, non si può “clonare� la qualità della nostra vera identità. Una identità, però, che non può essere vissuta solo come una rendita, una delle tante dell’Italia fondata sulle rendite.

 

Al contrario, se ne deve trarre tutta la straordinaria capacità di costruzione di valore che in essa risiede, senza accontentarsi della soddisfazione “musealeâ€� di essere i detentori del primo patrimonio artisticoâ€"culturale del mondo.

E’ allora arrivato il momento di mobilitare le politiche pubbliche e l’iniziativa dei privati nella costruzione e nella realizzazione di un progetto, il cui obiettivo sia quello di assicurare all’Italia una posizione di testa nel cosiddetto “capitalismo culturale�.

 

Quello, cioè, capace di far fruttare il patrimonio dell’identità italiana. Un patrimonio non delocalizzabile e, dunque, straordinariamente resistente alla competizione di chi - dalla Cina all’India - è ormai in grado di mettere in campo il formidabile “combinato disposto� di tecnologie avanzate, di risorse umane qualificate e di costi bassi, bassissimi.

 

Bisogna, però, superare preconcetti di lunga durata : dal ruolo ancillare dei servizi, del terziario rispetto all’industria â€" quando, ormai, il terziario vale il 65% dell’occupazione italiana e del PIL â€" fino ad un’innovazione ritenuta possibile soltanto nel settore manifatturiero.

 

Perché c’è spazio e c’è la necessità di una ulteriore crescita del sistema dei servizi nell’economia italiana.

 

I laboratori del terziario: le città

 

I laboratori del capitalismo culturale e dell’economia dell’esperienza â€" i laboratori del terziario - sono, anzitutto, i sistemi urbani delle nostre città, che hanno registrato una crescita dell’occupazione di quasi il 10% in 10 anni.

 

I processi di riqualificazione delle aree urbane meritano dunque di essere perseguiti con decisione. Essi, infatti, sono di per sé un’occasione di crescita aggiuntiva; ma â€" se accompagnati dall’attenzione alle relazioni tra cultura, commercio, turismo e servizi â€" agiscono anche come veri e propri catalizzatori del decollo del terziario avanzato.

 

La condizione â€" per dirla con Richard Florida â€" è che le città mettano insieme talento, tecnologia e tolleranza.

 

 

 

 

Riqualificare e ridurre la spesa pubblica

 

Si dirà: questa politica per i servizi e questo progetto di costruzione di una leadership italiana nell’economia dell’esperienza saranno pur suggestivi e forse anche convincenti; ma, oggi, quale effettivo spazio di manovra c’è per “liberare� risorse ed alimentare investimenti funzionali alla crescita e allo sviluppo?

 

Dal mio punto di vista, dal nostro punto di vista, la risposta è chiara.

 

Si agisca per mettere sotto controllo, per riqualificare e per ridurre la spesa pubblica. Lo si può fare chiarendo a tutti che non ci sono “pasti gratis� e che, tuttavia, non c’è davvero necessità di “lacrime e sangue�.

 

Riqualificare e ridurre la spesa pubblica. Lo si deve fare: perché questa spesa rappresenta un po’ meno della metà del PIL e, per circa il 90%, si tratta di spesa corrente; perché le retribuzioni nel settore pubblico continuano a crescere senza che a ciò corrisponda un significativo incremento della produttività delle pubbliche amministrazioni o della qualità dei loro servizi; perché la spesa sociale â€" cioè la spesa per previdenza, sanità ed assistenza pari a circa il 24% del PIL â€" pone non soltanto problemi di sostenibilità finanziaria, ma anche â€" e forse soprattutto â€" di equità sociale e intergenerazionale.

 

Del resto, per fare tutto ciò, le buone idee non mancano.

 

A partire dalla possibilità di promuovere l’ingresso nelle pubbliche amministrazioni di risorse giovani e qualificate, finanziandolo con i risparmi di spesa conseguibili attraverso una politica di pensionamento di una quota significativa dei dipendenti pubblici attualmente in servizio.

 

Scegliendo, ancora, di affrontare il nodo delle pensioni di anzianità. E di assicurare la tenuta nel tempo di un rigoroso Patto di Stabilità Interno tra Governo, Regioni ed Enti locali, in particolare per il controllo della spesa sanitaria.

 

Governare, riqualificare, ridurre la spesa pubblica: è in questo modo che va perseguito il rientro dall’extradeficit, che va ricostruito l’avanzo primario e che va ridotto il debito pubblico.

 

Ridurre il debito pubblico

 

Già, il macigno del debito pubblico: il 106% e più del PIL del Paese. Questa è, come è noto, la realtà di un’Italia che ha il terzo debito pubblico del mondo senza essere la terza economia del mondo.

 

Occorrono coraggio e realismo: perché il servizio del debito pubblico ci costa almeno due punti di PIL in più rispetto alla media degli altri Paesi europei. Una cifra enorme â€" intorno ai 30 miliardi di euro - destinata a crescere in uno scenario di aumento dei tassi di interesse.

 

Il Professor Guarino ha proposto, qualche mese fa, di abbattere lo stock del debito pubblico attraverso una procedura di alienazione del patrimonio dello Stato. E’ certamente un’ipotesi complessa e che necessita di approfondimento.

Tuttavia essa meriterebbe di essere considerata tra le scelte possibili. Senza che ciò, ovviamente, debba comportare un calo di tensione rispetto al buon governo della spesa pubblica, da cui discende la possibilità di migliorare l’avanzo primario.

 

La lotta all’evasione e all’elusione fiscale e contributiva

 

Come pure â€" lo dico a chiare, anzi a chiarissime lettere â€" è necessario un forte impegno per il contrasto ed il recupero dell’evasione, non meno che dell’elusione fiscale e contributiva.

 

Bisogna agire presto e bene.

 

Bene significa sgombrare il campo dalla tentazione di rintracciare nel mondo dell’impresa diffusa e nel lavoro autonomo i “protagonisti di riferimento� del fenomeno dell’evasione.

 

Se il sommerso, se il “neroâ€� valgono â€" nel nostro Paese â€" almeno 200 miliardi di euro, occorre invece riconoscere che si tratta di una patologia che investe ogni realtà dell’economia e della società italiana. E vale dunque la pena di indagare anche sul “rossoâ€� con cui si chiudono i bilanci di tante, troppe società di capitali.

 

Agire bene significa, poi, che bisogna garantire ai contribuenti stabilità delle regole e un giusto spazio per il contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria.

 

Quanto all’esperienza degli studi di settore, essa merita di essere costantemente affinata: per renderla sempre più aderente alle dinamiche reali dell’attività d’impresa, alla diversificazione settoriale e territoriale delle performance aziendali, all’impatto degli andamenti congiunturali sul fatturato delle imprese.

 

Anche in questo caso, soprattutto in questo caso, la strada maestra resta quella della concertazione.

 

 

 

La riduzione della pressione fiscale complessiva

 

E’ vero che occorre che tutti paghino, affinché ciascuno paghi un po’ di meno. Ma è altrettanto vero che far sì che ciascuno sia chiamato a pagare un po’ di meno â€" sia, cioè, chiamato a pagare il “giustoâ€� in relazione alla qualità dei servizi pubblici â€" sospinge tutti a pagare.

 

Per questo, anche per questo, occorre tenere insieme il contrasto dell’evasione e dell’elusione con l’impegno alla riduzione della pressione fiscale complessiva.

 

Perché, mediamente, la “corporateâ€"taxâ€� italiana si colloca intorno al 37%, largamente al di sopra dell’aliquota media del 28% dei Paesi OCSE e di quella dell’Unione europea allargata pari al 25%.

 

Senza dire poi, per il nostro Paese, del lavoro autonomo, in cui â€" tra fisco e contribuzione previdenziale â€" si arriva largamente e facilmente ad un prelievo complessivo superiore al 50%.

 

Senza dire, ancora per il nostro Paese, del peso di tanti, troppi tributi locali enormemente cresciuti negli ultimi anni: largamente oltre il 50% dalla fine degli anni novanta.

 

Senza dire, infine, dell’ �archeologia fiscale� di balzelli come la tassa sulle insegne !

 

La riduzione del cuneo fiscale e contributivo

 

Quanto alla riduzione del cuneo fiscale e contributivo, noi pensiamo che possa e debba essere fatta. E che vada fatta con un’equa distribuzione del beneficio tra le imprese e i lavoratori, in particolare per quelli il cui reddito si colloca in una fascia medioâ€"bassa.

 

Sarebbe, infatti, un buon modo â€" proprio rispetto al quadro congiunturale con cui ci stiamo confrontando â€" tanto per sostenere l’offerta, quanto per sostenere la domanda interna. Politiche, quella per l’offerta e quella per la domanda, che â€" non ci stancheremo davvero mai di ripeterlo â€" devono viaggiare insieme: in Italia come in Europa.

Peraltro, la riduzione del cuneo è una questione tanto più rilevante in un sistema fiscale che non ha ancora sciolto il nodo del problema IRAP. Di una imposta, cioè, che assume tra le componenti della base imponibile proprio il costo del lavoro.

 

Generalizzata o selettiva, la riduzione del cuneo ?

 

Generalizzata, non c’è dubbio. Perché ridurre il costo del lavoro ed assicurare maggiore salario netto è un problema comune delle imprese, di tutte le imprese, e dei lavoratori, di tutti i lavoratori. E perché il migliore selezionatore è certamente il mercato. Assolutamente più efficace ed efficiente, in ogni caso, di disposizioni di legge, di regolamenti amministrativi e di procedure burocratiche. Come del resto insegna, nel nostro Paese, la storia degli incentivi alle imprese.

 

Ma se proprio si dovesse selezionare, allora dei criteri di questa selezione bisognerà discuterne a fondo e per tempo. Perché si può condividere il criterio di selettività che mira ad utilizzare la riduzione del cuneo per incentivare la trasformazione di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. E si può anche ragionare sulla selettività mirata al sostegno dei processi di innovazione, cioè del vero propellente degli incrementi di produttività.

 

Ad una condizione, però: che si riconosca che questo propellente è oggi assolutamente necessario tanto per l’industria, quanto per il sistema dei servizi. E che, insomma, è vitale per la crescita della produttività della nostra economia, sia l’innovazione di prodotto e di processo tipica del manifatturiero, sia l’innovazione di servizio tipica del terziario.

 

Attenzione, dunque, quando si parla di selezione. Perché c’è criterio e criterio. Ma l’unica cosa che non potremo mai accettare è che â€" sotto le vesti della selettività â€" si cerchi di far passare ciò che, in sostanza, sarebbe la discriminazione dell’intero sistema dei servizi e, di converso, un privilegio riservato a chi â€" in via presuntiva, ma tutta da dimostrare â€" sarebbe maggiormente esposto alla concorrenza.

 

Infine, il problema del finanziamento, cioè del reperimento dei dieci miliardi di euro che sono necessari per abbattere il cuneo di cinque punti.

Per far questo, ci sono, anzitutto, i grandi “bacini� che ho prima richiamato: quello della riduzione della spesa pubblica e quello della lotta all’evasione e all’elusione fiscale e contributiva.

 

Ma c’è anche da ragionare sulle risorse destinate ad alimentare il sistema degli incentivi alle imprese.

 

Almeno in tanti casi, non sarebbero meglio impiegate â€" queste risorse â€" per la riduzione del cuneo o per la fiscalità di vantaggio nel Mezzogiorno ?

 

Il tema è stato sobriamente richiamato nella Relazione del Governatore Draghi. Ma, qui, preferisco far ricorso all’affondo dello scambio proposto, al riguardo, dal Professor Giavazzi: “meno aiuti di Stato alle aziende grandi e decotte e meno tasse per quelle piccole e di successo�.

 

Certo, è meno dirompente pensare di ricorrere all’aumento delle aliquote IVA. Tanto, in questo caso, chi pagherebbe il conto sarebbero le famiglie, in particolare quelle con redditi medio-bassi, sotto forma di penalizzazione dei consumi e di spinte inflattive.

Ha quindi detto bene chi â€" anche all’interno del Governo â€" ha sottolineato l’impercorribilità di una simile ipotesi, richiamando piuttosto l’attenzione sulla possibilità di recuperare un importante gettito IVA ad invarianza di aliquote.

 

C’è, poi, l’ipotesi di aumentare i contributi previdenziali dei lavoratori autonomi, che verserebbero poco all’INPS.

 

No, non è così: versano il giusto in relazione a quanto ricevono. E, per di più, questi “autonomiâ€�, questi commercianti hanno saputo amministrarsi. Al punto che â€" con la bellezza di 7 miliardi di euro di attivo patrimoniale della loro gestione INPS â€" finanziano il disavanzo di altre gestioni del mondo del lavoro.

 

Questa è, dunque, la strada: ridurre e riqualificare la spesa pubblica, ridurre il debito, recuperare il sommerso, ragionare sulla sostenibilità delle pensioni di anzianità attuali e ripensare il sistema degli incentivi alle imprese, riducendo per contro la pressione fiscale e contributiva.

 

Strada diversa â€" nella sua filosofia e nei suoi effetti â€" dal facile ricorso all’inasprimento della pressione fiscale, attraverso vecchie e nuove tasse.

 

Federalismo e funzione pubblica

 

Diversa perché contenere e ridurre la spesa significa “forzare� il processo di ristrutturazione e di riqualificazione della funzione pubblica.

 

Anche ridistribuendo compiti e funzioni: con una sfera pubblica che sia chiamata a fare magari di meno, ma sicuramente meglio; con un’iniziativa privata cui sia chiesto e consentito di assumere nuove responsabilità di interesse generale.

 

Particolarmente rilevante è, in questo processo, il ruolo delle Camere di Commercio, che, nell’età del federalismo nascente, hanno dimostrato di sapere agire efficacemente sul terreno dell’autogoverno delle “businessâ€"communityâ€� territoriali.

 

Più in generale, dopo l’esito del referendum, appare chiara la necessità di riaprire il confronto sul processo di costruzione dell’Italia come Repubblica federale.

 

Bisognerà farlo: tra le forze politiche, ma anche ascoltando i cittadini e il mondo del lavoro e delle imprese.

 

Perché chi â€" come noi â€" crede nell’opzione federalista, pensa che il federalismo di cui il Paese ha necessità richieda semplificazione amministrativa, chiara attribuzione delle competenze ed efficacia del loro coordinamento.

 

Ma, soprattutto, nel federalismo di cui il Paese ha necessità, c’è un principio che va fatto valere: è il principio della responsabilità.

 

Responsabilità nell’esercizio delle competenze legislative e dei procedimenti amministrativi. Responsabilità nel controllo dei costi della politica. Responsabilità nello sciogliere il nodo del federalismo fiscale, andando oltre i limiti stretti e precari dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali.

 

Lo si deve fare. Perché le entrate tributarie di Regioni ed Enti locali sono cresciute â€" tra il 2000 e il 2005 â€" del 26%, ma le loro spese â€" nello stesso periodo â€" si sono incrementate del 35%.

 

Tutto ciò, in sostanza, affinché federalismo, funzione pubblica, contesto giuridico-amministrativo siano generatori di efficienza e di crescita per l’intero sistemaâ€"Paese.

 

Sul versante del contesto giuridico-amministrativo, quanto di buono è stato fin qui realizzato va completato, migliorato e non azzerato. Ed il riferimento al recente Codice Ambientale è d’obbligo.

 

Costruire concorrenza e liberalizzazioni

 

La concorrenza richiede scelte di apertura dei mercati e Autorità forti e indipendenti, ma non autoreferenziali.

 

Richiede privatizzazioni che siano precedute da scelte di liberalizzazione per evitare di “impantanarsiâ€� nel passaggio dal monopolio pubblico al semiâ€"monopolio.

 

Richiede politiche â€" industriali e per i servizi â€" utili a sospingere gli exâ€"monopolisti e i residui “campioni nazionaliâ€� a confrontarsi, con maggiore impegno, con lo scenario ampio e competitivo che sta oltre la soglia dei confini nazionali.

 

Richiede politiche che riconoscano, accompagnino e premino i processi di crescita dimensionale delle piccole e delle medie imprese e le loro aggregazioni di gruppo e di rete.

 

Tento una formula riassuntiva. Ci servono politiche per declinare in maniera attiva il valore del pluralismo imprenditoriale e degli animal spirits dell’impresa diffusa italiana. Per una maggiore efficienza e produttività delle imprese italiane ad ogni livello della loro scala dimensionale. Perché tutte condividano l’impegno alla crescita: le piccole, le medie, le grandi. Perché questo è ciò che serve alla crescita dell’Italia !

 

Il caroâ€"energia

 

Se dovessi comunque indicare un “nocciolo duroâ€� della competitività difficile del sistemaâ€"Italia, insisterei sul deficit di dotazione infrastrutturale e sul “caro energiaâ€�.

 

Modi e principi per affrontare e risolvere il nodo del “caro-energia� sono notissimi e sono stati largamente accolti nel disegno di legge delega per il completamento del processo di liberalizzazione del mercato dell’energia, predisposto dal Ministro Bersani.

 

Per questo, ci auguriamo che esso vada rapidamente in porto e venga celermente attuato. La liberalizzazione del mercato può non solo ridurre i costi a carico delle imprese e delle famiglie, ma può anche suscitare investimenti, innovazione tecnologica e specializzazione produttiva. In particolare, nel campo delle fonti rinnovabili e della cogenerazione, dell’efficienza e del risparmio energetico.

 

Anche per questo vale la pena che lo Stato rinunci a qualche dividendo azionario troppo generoso e ad una fiscalità energetica troppo ricca, mettendo mano ad una sua seria revisione.

 

Oggi, infatti, una piccola impresa commerciale italiana paga l’energia elettrica il 62% di più di un’analoga impresa spagnola, anche per un’incidenza di imposte e oneri di sistema del 35% sul prezzo finale; paga il gas il 50% di più dell’impresa spagnola, con un’incidenza delle imposte del 44% sul prezzo finale.

 

Per non dire poi, nel comparto del trasporto, delle accise sui carburanti, che incidono per un valore pari al 70/75% sul costo del prodotto alla pompa.

 

 

 

Infrastrutture, trasporti e logistica, il sistema portuale

 

C’è un nesso inscindibile tra competitività, infrastrutture, trasporti e logistica. Basti pensare al fatto che, nel nostro Paese, trasporti e logistica incidono sulla competitività con un ordine di grandezza intorno ai 40 miliardi di euro.

 

Le dimensioni del fabbisogno finanziario per gli investimenti in infrastrutture sono note: largamente oltre i 200 miliardi di euro.

 

Tenendo conto delle esigenze di risanamento dei conti dello Stato, il finanziamento degli investimenti in infrastrutture richiederà certamente il rafforzamento del modello del partenariato pubblico privato e del projectâ€"financing.

 

 Andrà, però, anche affrontata la questione della mobilitazione del rilevante attivo della Cassa Depositi e Prestiti, dopo la trasformazione in Società per azioni che ne ha innovato il tradizionale modello operativo fondato sulla provvista dei depositi postali e sul finanziamento degli Enti locali, introducendo la gestione ordinaria. Anche in considerazione della presenza delle Fondazioni di origine bancaria nell’azionariato della Cassa, risulta infatti evidente l’opportunità dell’impiego di ingenti disponibilità sia per la costruzione di nuovi strumenti di finanziamento delle infrastrutture, sia per la creazione di fondi di private-equity destinati, in particolare, alle PMI.

 

Occorrerà, comunque, selezionare. Tenendo conto dello stato di avanzamento delle previsioni della Legge Obiettivo e della priorità degli interventi in termini di impatto competitivo.

 

L’attraversamento dei valichi alpini, in particolare, deve essere affrontato come una vera emergenza nazionale. La situazione attuale, infatti, già determina un sovracosto a carico dell’autotrasporto nell’ordine dei 500 milioni di euro l’anno e un sovracosto complessivo di sistema nell’ordine di 1,5 miliardi di euro. Se non si interverrà, questi sovracosti sono destinati a crescere del 23% entro il 2010.

 

Anche gli investimenti per il sistema portuale saranno determinanti: sia per le cosiddette “autostrade del mareâ€�, sia per cogliere l’obiettivo possibile di fare â€" dell’Italia nel suo complesso e del Mezzogiorno in particolare â€" una grande piattaforma logistica mediterranea.

 

Per l’insieme di queste ragioni, è dunque forte l’auspicio che, nella legislatura che si sta aprendo, vengano confermati e trovino attuazione tanto i contenuti della recente riforma per la liberalizzazione regolata dell’autotrasporto, quanto quelli del Patto e del Piano della Logistica.

 

Questione settentrionale e questione meridionale

 

Subito dopo la consultazione elettorale per il rinnovo delle Camere, si è aperta una interessante discussione sulla cosiddetta “questione settentrionaleâ€�, cioè sulle domande esigenti ed urgenti poste alla politica â€" in questa area del Paese - da chi vive sulla propria pelle l’impatto dell’intera agenda della competitività difficile.

 

A dire il vero, l’agenda della “questione settentrionale� non mi sembra, però, molto diversa da quella che è all’ordine del giorno della più consolidata “questione meridionale�.

Naturalmente, nel Mezzogiorno, l’intensità delle sfide è ancora maggiore. Ma le chances competitive sulle quali mi sono fin qui soffermato valgono però tutte anche per il Mezzogiorno. Forse, anzitutto per il Mezzogiorno.

 

Sono le chances del turismo, del sistema portuale, del capitalismo culturale e anche del terziario avanzato, come dimostra la storia dell’Etnaâ€"Valley.

 

Insomma, il Mezzogiorno ha risorse importanti sulle quali puntare: dotazioni importanti di identità e di capitale umano qualificato.

 

Ma ci sono, d’altra parte, scelte forti da fare: in materia di fiscalità di vantaggio, di efficienza delle pubbliche amministrazioni, di dotazione infrastrutturale, di una rigorosa cultura della legalità e di un vigile impegno al contrasto di ogni forma di criminalità e, in particolare, delle sue mille infiltrazioni nel circuito legale dell’economia.

 

Soprattutto, ancora una volta, c’è però da affermare il principio della responsabilità.

 Perché è vero che la spesa pubblica in conto capitale va, nel Mezzogiorno, confermata e rafforzata. Ma, contemporaneamente, spetta proprio alle donne e agli uomini, alle lavoratrici e ai lavoratori, alle imprenditrici e agli imprenditori e, soprattutto, alle giovani e ai giovani del Sud il compito di porre, oggi, il problema politico della qualità e dell’efficacia di questa spesa pubblica.

 

Mercato del lavoro, workfare e contrattazione

 

Rispetto agli obiettivi di Lisbona in materia di occupazione, strada ne abbiamo fatta, in questi anni: con il pacchetto Treu e con la legge Biagi. Ma certo anche per effetto della regolarizzazione del lavoro degli immigrati.

 

Siamo, oggi, di fronte ad un mercato del lavoro profondamente cambiato, ma del quale non si può però oggettivamente dire che sia strutturalmente connotato dalla precarietà. Un mercato del lavoro in cui, invece, la flessibilità governata e contrattata agisce come strumento di contrasto del lavoro irregolare.

Nessuno nega che vi sia ancora della strada da fare e che, in particolare, occorrano, insieme, uno “Statuto dei lavori� e la riforma degli ammortizzatori sociali.

 

Ma, appunto, si tratta di discutere, di completare. E forse anche di perfezionare quanto è stato già fatto. Quanto ha fatto, da ultimo e in particolare, Marco Biagi.

 

Il punto di fondo, comunque, è che il tasso di partecipazione al mercato del lavoro è, nel nostro Paese, pari a circa il 63% : 7 punti in meno dell’area euro. E precipita addirittura al 38% per le donne del Mezzogiorno.

 

E’ un’insostenibile dissipazione di capitale umano. E’ la ragione vera della precarietà di tanti progetti di vita.

 

Anche da qui si trae conferma della necessità della ristrutturazione della spesa sociale italiana, della soluzione del paradosso del welfare italiano: finanziariamente, sempre meno sostenibile; socialmente, sempre meno inclusivo.

Risolverlo si deve. Risolverlo si può.

 

E’ una responsabilità dei padri nei confronti dei figli; degli inclusi nei confronti degli esclusi. E anche degli italiani di nascita nei confronti degli immigrati e di quei loro figli, che â€" in Italia â€" sempre più nasceranno.

 

Ci vuole un po’ di coraggio: nell’affrontare la questione della sostenibilità demografica del sistema pensionistico pubblico e per il decollo della previdenza integrativa; nel ripensare la sicurezza sociale, fondandola sempre più saldamente sul lavoro e sulla tutela del lavoratore, piuttosto che del posto di lavoro; nel valorizzare il ruolo sussidiario della famiglia e del terzo settore che, del resto, già oggi sono reti fondamentali di tutela e di coesione sociale.

 

E’ il modello della società attiva. Quello della responsabilità individuale e collettiva. Quello che costruisce e valorizza il “saper fare� attraverso l’istruzione e la formazione. Quello che punta ad una maggiore mobilità sociale, frutto della scelta di riconoscere e di premiare il merito e il talento: nel lavoro come nei confronti di chi studia e di chi insegna.

E c’è, dunque, molto spazio per uno sviluppo della contrattazione collettiva e della bilateralità, che si facciano carico di aspetti importanti del nuovo workfare.

 

Anche di questo bisognerebbe parlare, quando si discute di nuovi modelli contrattuali.

 

Un tema rispetto al quale, a nostro avviso, merita di essere confermato il fondamentale ruolo regolatore della contrattazione di livello nazionale, anche per la tenuta di una politica dei redditi che un po’ troppo frettolosamente è stata data per morta.

 

Confermarlo, però, non vuol dire lasciare tutto come è oggi. Al contrario. Pensiamo, infatti, che ci sia davvero la necessità almeno di una manutenzione straordinaria dell’architettura contrattuale figlia degli accordi del ’93. Per realizzare, in particolare, un equilibrio più avanzato tra primo e secondo livello, consentendo a quest’ultimo di agire per un’efficace redistribuzione degli incrementi di produttività.

 

La società attiva e il valore della responsabilità

 

La società attiva riconosce e premia il merito e il talento. Fa valere il principio di responsabilità: per sé stessi e per gli altri, per la società e per il Paese.

 

E’ questo, del resto, il principio che â€" per quel che ci riguarda â€" ci ha consentito di affrontare una pagina difficile della storia della Confederazione, forse la più difficile.

 

Una pagina anche dolorosa. Ma a cui abbiamo risposto lavorando â€" velocemente e con passione â€" per rafforzare regole e strumenti di partecipazione, di controllo, di rendicontabilità dell’operato amministrativo e di quello politicoâ€"sindacale nei confronti di chi sceglie di vivere l’esperienza associativa in Confcommercio.

 

Letti nel loro insieme, i valori della società attiva assegnano nuovi e più impegnativi compiti sia all’iniziativa privata, sia alle politiche pubbliche.

 

Chiedono, in particolare, che tra pubblico e privato si instauri un tessuto fitto di relazioni cooperative e anche competitive, ma non conflittuali.

 

Chiedono confronto, dialogo, condivisione di progetti e di visione.

 

Chiedono a chi governa la capacità di ascoltare le ragioni di chi cerca di interpretare esigenze ed attese dell’economia e della società: una capacità di ascolto, però, che non può inibire la responsabilità di decidere e che non legittima diritti di veto.

 

Chiedono, nel rapporto tra la politica e le rappresentanze sociali, autonomia di ruoli e la franchezza di giudizi che non siano mai pregiudizi.

 

Chiedono, nel rapporto tra Governo e Parlamento e in quello tra maggioranza e opposizione, che, pur nel più aspro confronto, non venga mai smarrito il senso, il valore delle scelte fatte per riformare un Paese, che fa così tanta fatica a cambiare.

 

Con un concetto dell’alternanza tra gli schieramenti politici che â€" memore, tra le altre, della lezione di De Gasperi - sia dunque fondato su quello della democrazia come bene profondo, della democrazia come somma e non come sottrazione.

 

Con coraggio e con passione, con tenacia e con pazienza, cambiare, però, si deve e si può.

 

Con un supplemento di responsabilità, che ci riguarda tutti. Nessuno escluso e ad ogni livello.

 

Perché è in questo modo che si fa, concretamente, il bene dell’Italia.

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