La sintesi della ricerca "Innovo dunque cresco (e consumo)"

La sintesi della ricerca "Innovo dunque cresco (e consumo)"

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17 settembre 2009
OSSERVATORIO SUI CONSUMI


 

 

 

 

 

 


FORUM “INNOVAZIONE, CRESCITA, CONSUMI:

PER UN’ITALIA PIU’ EUROPEA”

 

 

 

INNOVO DUNQUE CRESCO

(E CONSUMO)

 

 

Conferenza stampa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VENEZIA, 18 SETTEMBRE 2009


 

 

 

La terziarizzazione dell’economia

Il tema di oggi è duplice: consumi e innovazione. Intesa in senso estensivo, come innovazione legata al mondo dei servizi, complementare rispetto a quella tecnologica, alle invenzioni di matrice industriale. Dobbiamo ammettere che la marginalizzazione delle questioni legate ai sevizi e all’innovazione, anche delle componenti immateriali delle esperienze di consumo, potrebbe essere una delle ragioni della stagnazione economica - ma qualcuno direbbe anche culturale - del nostro Paese.

 

Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confcommercio

 

Cominciamo con il considerare un dato di fatto. I servizi valgono più della metà del totale consumi. Oggi, quindi, la quota immateriale è superiore a quella materiale, anche della produzione visto che il valore aggiunto dei servizi è pari al 71% del Pil. E’ necessario chiedersi se non sia il caso di pensare in modo diverso al rapporto tra mondo della produzione e mondo dei consumi. Se la dimensione immateriale prende il sopravvento non è più centrale il ruolo dell’industria che produce oggetti ma il ruolo di chi sa interpretare aspirazioni e bisogni dei cittadini, cooperando con loro per trovare soluzioni. Ecco, trovare queste soluzioni è il cuore dell’innovazione a cui pensiamo: creare senso agli scambi, fare del consumo un’esperienza valorizzandone la dimensione immateriale, che è quella più ricercata, oggi.

 

Innovazione e capitale umano

Dall’innovazione alla creazione di valore: questa può essere la spinta utile al nostro prodotto potenziale. Il circuito lo sintetizzo così: l’unica possibilità di lanciare e vincere una sfida ‘da sistema economico moderno’ che si confronta e compete nel mondo, è quella del capitale umano. Dell’education, in generale, a ricomprendervi l’istruzione di ogni ordine e grado, e la formazione, sul lavoro, a qualsiasi età. Sul legame inscindibile tra accumulazione del capitale umano e crescita economica stimavamo che un anno aggiuntivo nel numero medio di anni di istruzione facesse crescere il tasso di variazione del prodotto potenziale di circa 0,7 punti percentuali. Ora chiariamo il punto: più education e research proprio per una nuova stagione di innovazione nei servizi.

Non si esce dalla malattia da bassa crescita senza la consapevolezza che solo un’accumulazione di capitale umano quantitativamente e qualitativamente più cospicua può restituire quella forza innovativa al mondo produttivo che manca da troppo tempo. Per farlo, come visto, bisogna ripensare l’innovazione, in una declinazione ben più ampia di quella tecnologica e materiale.

Diamoci questa possibilità, è il messaggio delle ricerche qui presentate.

L’innovazione e la creatività sono uscite dall’ambito ristretto della manifattura per essere riconoscibili, anche se ancora non riconosciute pienamente, in quello del servizio e non solo dei servizi. Se oggi finalmente ammettiamo che l’oggetto degli scambi non è più - in realtà non è mai stato - un oggetto quanto i saperi, le competenze, le specializzazioni e il tempo altrui, allora il capitale umano può effettivamente dare un impulso, tramite innovazione e creatività, alla dinamica del prodotto potenziale.

Da esso, poi, dipendono inesorabilmente i consumi e, per quanto la quantità e la qualità di questi si correli alla felicità umana, anche il benessere.

 

Pil potenziale e consumi

Sono concreti, anche in Italia, i primi segnali di ripresa, di uscita dalla crisi. Ma la questione centrale è ‘come’ ne usciremo.

 

Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confcommercio

 

Alla fine di questa specifica crisi finanziaria potremmo trovarci con il 5-6% di Pil in meno, con il 2-3% di disoccupazione in più e con gli stesi tassi di crescita del prodotto potenziale con i quali ci siamo entrati (largamente insufficienti rispetto alle legittime aspirazioni di una moderna democrazia economica). La crisi importata si è sovrapposta alle debolezze strutturali del Paese, in termini di dinamica della produttività totale dei fattori e non solo del lavoro. La fine della nostra crescita risale all’inizio degli anni 2000, datando alla seconda parte degli anni ’80 l’ultimo ciclo fortemente espansivo. Oggi la variazione del Pil pro capite potenziale - che è quanto, in media, ciascuno di noi può ragionevolmente attendersi in termini di miglioramento del reddito personale - è addirittura nulla (togliendo allo 0,4% la crescita della popolazione residente). I rilevanti sprechi di cui soffriamo riducono il frutto del lavoro immesso nel processo produttivo, data l’attuale quantità e qualità del capitale privato e pubblico. E i consumi, conseguentemente, si contraggono, confermando l’ineluttabile schema visto in precedenza.

 

Crescita economica: l’Italia a confronto con gli altri Paesi

L’Italia era un grande Paese in un piccolo mondo economico rilevante. Ora è cresciuta la dimensione delle economie che contano e siamo un piccolo Paese in un mondo grande e interconnesso. Nel 2008 l’Italia si colloca soltanto poco sopra la media del Pil pro capite EU27 (25.800 euro contro 24.600), addirittura sotto se il conteggio viene fatto in standard di potere d’acquisto.

Vediamo come siamo arrivati a essere risucchiati a centro classifica o anche più sotto. Intanto c’è da ammettere che su 27 Paesi, con strutture produttive differenti e in differenti posizioni di maturità socio-economica, l’Italia palesa la peggiore performance assoluta. Il nostro Paese ha sofferto del blocco dello sviluppo della produttività multifattoriale, causato, come detto, dall’esiguità dei processi di accumulazione di capitale umano, in primo luogo, cui si sono aggiunti il rallentamento nell’accumulazione di capitale produttivo privato e l’inadeguatezza cronica di infrastrutture pubbliche.

I Paesi dell’Est europeo hanno mostrato tassi di sviluppo molto elevati. La crisi però li colpisce oggi in modo pronunciato, con le conseguenti possibili ricadute negative in termini di crediti incagliati da parte delle grandi banche dei Paesi europei più industrializzati. Nonostante questo, gli sviluppi di benessere sperimentati nel passato non andranno del tutto persi.

Vi sono poi i casi oggi definiti della ‘crescita a debito’. Spagna, Regno Unito e Irlanda, senz’altro stanno sperimentando una riduzione dei consumi privati più forte che in Italia, ma è molto dubbio che i vantaggi conseguiti da questi Paesi - con un tasso ultradecennale di crescita media annua del Pil pro capite da quattro a dieci volte il tasso italiano - saranno messi in discussione dalla crisi finanziaria appena superata.

 

Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confcommercio

 

Ma anche al netto della componente finanziaria e immobiliare, il tasso di variazione di medio termine del Pil di Paesi come il Regno Unito resta molto, troppo al di sopra, di quello dell’Italia. Dunque, la quota della crescita eventualmente generata da fenomeni speculativi non è tale da mutare radicalmente le valutazioni sulle performance comparative dei vari Paesi. C’è qualcos’altro che riguarda l’Italia, e sappiamo già di cosa si tratta. Ora, forti di queste evidenze, si dovrebbe riconsiderare, almeno in parte, il nostro modello produttivo chiedendosi se oltre le strategie per il rilancio della manifattura, delle esportazioni, delle eccellenze del made in Italy industriale, non sia ora di sviluppare il ruolo dei servizi, dell’innovazione immateriale, dell’economia della conoscenza.

 

Gli effetti della crisi sui consumi

Dal Pil, in modo quasi diretto, si passa ai consumi e, come è inevitabile, certe distanze ricompaiono. La crisi finanziaria in corso di superamento si sta facendo sentire e le sue conseguenze sui consumi delle famiglie sono ben lungi dall’esaurirsi. Se nei tredici anni passati la media della crescita dei consumi nell’UE27, al lordo dell’incremento della popolazione, è stata del 2,2% reale, nel triennio 2009-2011 la variazione risulterà negativa per due decimi di punto, descrivendo uno scenario radicalmente diverso dal passato.

 

Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confcommercio

 

Sarà inevitabilmente un triennio difficile, nonostante i positivi sforzi fatti dalle istituzioni internazionali e dai Governi nazionali per contrastare gli effetti più perniciosi della crisi. Molti Paesi dell’Est ne soffriranno profondamente, la peggiore performance spetterà all’Irlanda, mentre per l’Italia la riduzione di sei decimi di punto in media d’anno per il triennio 2009-2011 va letta aggiungendovi la riduzione dell’1% già patita nel 2008, quando invece la maggior parte degli altri Paesi aveva sperimentato ancora una variazione reale positiva. Ciò significa che nel 2011 i consumi interni pro capite in Italia si posizioneranno, al netto di fenomeni monetari, sui livelli del 2000. Sia per la UE27 sia per l’Italia, il ritorno ai livelli pro capite di consumo pre-crisi (cioè del 2007) sarà particolarmente lungo e non potrà concretizzarsi prima della fine del 2012.

 

I cambiamenti socio-economico-demografici hanno impatti diretti sulla struttura dei consumi dei cittadini europei.

Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confcommercio

 

In generale, si pone oggi la questione, forse più culturale che economica, se dopo il superamento della crisi, le condizioni economiche e socio-culturali consentiranno di riprendere i percorsi di evoluzione degli stili di consumo interrotti a fine 2007 oppure se nuovi, radicalmente differenti, modelli di consumo sostituiranno i vecchi. All’interno di questa alternativa, l’opzione più probabile è quella di una lenta ripresa sui vecchi binari, con accorgimenti di rilievo riguardanti più le modalità e le occasioni di consumo rispetto alla dimensione e alla composizione dei consumi medesimi.

Considerando l’Europa a 27 in aggregato, emerge come negli anni passati la terziarizzazione dei consumi sia stata il principale driver di allocazione della spesa. Il tempo liberato, fruito in casa o fuori, assieme alla mobilità personale, sono le grandi funzioni di spesa le cui quote sono maggiormente cresciute, raggiungendo nel 2008, nel complesso circa il 30% della spesa totale. Ciò è vero tanto in termini monetari quanto di variazione del consumo effettivo, visto che l’area del tempo liberato - vacanze, alberghi, elettronica di consumo, personal computer, istruzione e servizi ricreativi - ha fatto segnare un tasso di sviluppo praticamente doppio rispetto alla media dei consumi (4,3% medio annuo rispetto al 2,2%, in un arco di tempo di tredici anni). La voce di dettaglio che è cresciuta di più tra tutte è proprio l’informatica domestica (12% reale medio annuo), senza grandi differenziazioni tra Paesi, in ragione di un fortunato e illuminante incontro tra innovazione di base e innovazione nel servizio, capace di semplificare e rendere fruibile un sistema di trasmissione, elaborazione e condivisione di informazioni, potenzialmente ostico a una popolazione di età elevata e crescente.

La previsione della spesa reale per comunicazioni, beni e servizi per la mobilità è negativa (-0,1% medio annuo reale), in risposta a un trend robusto di riduzione del tempo libero fruito outdoor. In assenza di politiche di incentivazione all’acquisto di autovetture nuove, la spesa di questa macro-funzione si incanalerebbe lungo un trend fortemente decrescente.

Le spese fisse per l’abitazione costituiscono, per i Paesi in cui i processi di liberalizzazione dei mercati sono ancora incompleti, un ostacolo allo sviluppo del benessere ricavabile dai consumi a causa di prezzi elevati e crescenti per le forniture di energia, acqua e gas. Oltre un quinto dei consumi totali sono vincolati alla gestione della casa, in larga misura senza possibilità di scelte effettive da parte dei cittadini-consumatori.

La spesa per l’alimentazione, inclusi i tabacchi, è il capitolo più rilevante. Vale per l’EU27 più di tutto il Pil italiano. Al suo interno è contraddistinta da dinamiche ben differenziate tra singole categorie di spesa e tra Paesi. La quota appare decrescente perché gli alimentari, cioè il food domestico, le bevande alcoliche e i tabacchi sono cresciuti meno della media e hanno un peso maggiore rispetto alle consumazioni fuori casa. La socio-demografia spinge ovunque i consumi fuori casa, anche se la crisi impatterà radicalmente su queste spese. Va segnalato, infatti, che nei Paesi più poveri si è riscontrato un tasso di crescita dei prodotti alimentari ben più elevato rispetto a quello dei Paesi più ricchi. Ciò è il risultato di una regolarità forte: i processi evolutivi, i cicli di consumo e l’evoluzione degli stili procedono più rapidamente con il passare del tempo e con l’affermarsi della globalizzazione, che consente un’ibridazione rapida delle culture, delle aspirazioni, delle occasioni d’acquisto. In altre parole, se in Italia la quota di spesa per bar e ristoranti ha impiegato dieci anni per crescere meno di un punto percentuale durante gli anni ’80, oggi questo fenomeno si realizzerà - crisi permettendo - nei Paesi dell’Est in un tempo pari alla metà oppure di meno.

 

La struttura dei consumi in Europa

Sta emergendo un consumatore europeo? Convergono a qualche struttura individuabile le 27 composizioni nazionali della spesa per consumi?

L’evidenza empirica sul punto dice che la variabilità delle quote nazionali per le singole categorie di spesa tende moderatamente a ridursi nel tempo, almeno sulla base delle grandi funzioni di spesa, e quindi si può affermare che, seppure ancora non emerga una struttura target, vi sono elementi di convergenza. In altre parole, non è possibile indicare dove si arriverà ma senz’altro, nel corso dei 13 anni che vanno dal 1996 al 2008, alcuni grandi comparti di spesa come il tempo liberato o la finanza personale sono cresciuti molto di più nei Paesi che vi dedicavano all’inizio del periodo minori risorse. Ciò implica una qualche forma di omogeneizzazione delle strutture di spesa.

 

 

Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confcommercio

 

Restano però molto vivaci le forze che contrastano questa tendenza. Le forze della tradizione, della cultura, delle abitudini di spesa sono quasi altrettanto radicate rispetto a quelle della globalizzazione, dell’ibridazione, dello scambio culturale che rende i consumi meno eterogenei tra i differenti consumatori nazionali.

Ad esempio, l’attenzione all’ambiente domestico e al design, con il quale esso è oggi rappresentato e vissuto, fa dell’Italia un Paese con una quota di spesa (7,5%) che difficilmente si ridurrà ai livelli del Regno Unito. Questi elementi di caratterizzazione delle strutture di spesa nazionali potranno essere smussati ma non annullati nel prossimo futuro, continuando quindi a contraddistinguere diversi modelli di spesa. Considerazioni analoghe valgono per la cura del sé, con l’Italia e alcuni Paesi mediterranei che sovra-pesano l’area dell’abbigliamento e delle calzature rispetto ad altri sistemi economici, e per la finanza personale, per la quale i Paesi del Centro-Europa e del Nord-Europa spendono frazioni relativamente superiori del proprio budget. La terziarizzazione dei consumi passa anche da queste dinamiche. E’ tuttavia probabile, nei prossimi te anni, un ridimensionamento della quota di spesa per la finanza personale con velocità accentuate dove essa è oggi maggiore della media. Anche in questo caso il processo di lenta convergenza farà il suo corso.

Paradigmatica dell’apertura di un Paese nei confronti dei flussi turistici, intesi sempre in senso lato, è la quota di spesa per bar e ristoranti. Grecia, Spagna, Regno Unito, Irlanda, hanno le frazioni maggiori allocate su questo grande comparto per diverse ragioni tra cui, al positivo flusso turistico, ivi contabilizzato per la parte di consumazioni fuori casa, si unisce una forte propensione verso i consumi outdoor da parte della popolazione residente. Questo tema è di cruciale importanza anche per un Paese come l’Italia. Quando un sistema economico è votato all’accoglienza si struttura in modo tale che anche la popolazione residente tende a enfatizzare quegli orientamenti di spesa. E’ il più importante campo di potenziale applicazione della soft innovation nei servizi, quale proposta per lo sviluppo del prodotto potenziale. La revisione delle strutture urbanistiche e dei centri storici, la logistica, la fruizione delle città come luoghi che raccontano storie e sviluppano esperienze nello scambio e nel consumo, prolungando al di là del momento della spesa o della consumazione, il valore dell’atto d’acquisto, rappresentano le direttrici più sicure per migliorare la produttività del capitale fisico, umano, ambientale, oggi disponibile per la crescita economica.

La più importante cartina di tornasole per vedere un mutamento nella cultura e nella prassi produttiva italiana è osservare un’incentivazione della soft innovation dei servizi di distribuzione, turistici, di fruizione del territorio, cui seguirebbe un incremento dei flussi turistici e della spesa netta ad essi correlata, e uno sviluppo della quota dei consumi in alberghi, pubblici esercizi, bar e ristoranti, oltre che nei servizi ricreativi. Del resto questo deficit italiano è drasticamente testimoniato anche nell’esiguità della quota di spesa destinata al tempo liberato.

E’ molto difficile intraprendere percorsi di cambiamento in un momento contraddistinto da una debole, probabile, ripresa, che prende le mosse da livelli delle variabili economiche molto ridotti, sia rispetto ai trend storici sia nella comparazione internazionale. Ma è ancora più necessario che in passato. La crisi come opportunità è un’idea che ha forse a che fare con un cambiamento di mentalità.

 

Congiuntura e previsioni macroeconomiche

Chiudo con una riflessione sulla congiuntura. Sullo sfondo resta l’incertezza sulla dinamica dell’occupazione, malgrado gli interventi che il Governo italiano ha messo in campo in materia di estensione, proroga, rafforzamento degli strumenti volti alla conservazione del capitale umano attivo presso le aziende nel periodo di crisi acuta. I dati economici di cui oggi disponiamo, quanto si vuole frammentari e parziali, sono comunque tessere coerenti di un puzzle che suggerisce il superamento della fase più acuta della recessione e l’inizio di una ripartenza. Dagli indici borsistici ai climi di fiducia, esiste una convergente indicazione che il primo semestre abbia rappresentato il minimo del valore assoluto del prodotto lordo e dei consumi nonché il minimo del capitale fiduciario disponibile nell’economia. Quest’ultimo sembra in via di lenta ricostituzione, con primi riflessi sui comportamenti effettivi che rileviamo dai consumi (l’Indicatore dei Consumi Confcommercio è positivo per due mesi, consecutivi, giugno e luglio, cosa che non accadeva da 18 mesi).

Tutto ciò per dire quando si afferma che il peggio sia passato non lo si fa sulla scorta di uno stato d’animo o sotto l’influenza della meteoropatia, ma sulla base di qualche dato. E aggiungo ancora che non c’è alcuna contraddizione tra la constatazione che siamo in presenza di una debole ripartenza e la previsione che la ripresa sarà lentissima e che alla fine del 2011 forse avremo perso abbondantemente dieci anni di crescita in termini pro capite, come si può valutare dalla sintesi previsionale che indica un Pil che si riduce di circa il 6% nel biennio 2008-2009 e cresce meno dell’1,5% cumulato tra il 2010 e il 2011.

 

Fonte: elaborazione Ufficio Studi Confcommercio

 

 

Infatti, l’intensità della ripresa non potrà essere dissimile dai tassi di variazione del Pil con i quali siamo entrati in recessione, proprio perché non abbiamo ancora rimosso le debolezze strutturali che comprimono, in qualsiasi fase congiunturale, le nostre possibilità di crescita economica e di sviluppo sociale in senso più generale.

Un miglior funzionamento della macchina pubblica, la ripresa del processo di liberalizzazione, la realizzazione delle infrastrutture necessarie, certamente potranno innalzare il livello e la dinamica del nostro prodotto potenziale. Ma assieme a queste strade, va percorsa quella dell’investimento in capitale umano. Il primo, difficile tratto del percorso riguarda il cambiamento di visione culturale di cittadini-consumatori, imprenditori e istituzioni pubbliche nei confronti dell’innovazione nei servizi: occorre definirla, riconoscerla, incentivarla, diffonderla.

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