"NO DAY"

"NO DAY"

Bergamo, 21 maggio 2003

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21 maggio 2003
Intervento di Sergio Billè

Questo referendum sull’articolo 18, assurdo nell’impostazione e completamente errato per gli obbiettivi che intenderebbe realizzare, deve essere, in busta chiusa, rispedito al mittente e credo che il modo migliore per farlo sia quello di staccare proprio la spina cioè non andare il 15 giugno alle urne. Perché sarà proprio questa astensione dal voto a fare la  differenza, a marcare il vistoso, direi plateale distacco che oggi esiste tra chi crede nello sviluppo di un moderno e libero mercato- ed è  quel che appunto pensa la stragrande parte degli italiani- e chi, invece, cerca, anche se siamo ormai nel terzo millennio, di difendere schemi e ideologie di altro conio e che ormai la storia ha, da tempo, cancellate o sepolte.

Perché è assurdo che, in un momento di grave crisi come quello che oggi sta attraversando la nostra economia, ci sia davvero qualcuno che possa pensare di risolvere i problemi del nostro paese  colpendo proprio quell’unica parte delle imprese che ancora riesce, nonostante tutto, a produrre valore aggiunto e nuovi posti di lavoro.

I motivi per i quali va affossato questo referendum credo che siano fin troppo chiari ed evidenti. Ne ricordo solo tre, quelli che mi sembrano essenziali. Primo, una simile riforma scardinerebbe proprio l’impianto di base su cui ruota  tutto il sistema delle piccole imprese cancellando proprio quei pur ristretti margini di flessibilità che  consentono loro di restare oggi competitive sul mercato. Secondo, toglierebbe loro la voglia di investire. Il che porterebbe ad una diminuzione dei posti di lavoro proprio nell’unico settore imprenditoriale che è ancora- come dimostrano le più recenti statistiche- in grado di produrne. Se, infatti, sciaguratamente venisse approvata questa riforma, almeno 150 mila posti di lavoro a tempo indeterminato- questa è la previsione- verrebbero difatti o cancellati o convertiti in posti di lavoro precario. Terzo, spingerebbe altre decine di migliaia di aziende verso la già fin troppo vasta area dell'economia sommersa.   

E’ importante che anche i partiti dell’opposizione di centro sinistra e parte dei sindacati abbiano deciso di prendere le distanze, e direi che sono distanze nette e assai marcate, da questo referendum proposto da Rifondazione comunista. Come è importante che un analogo atteggiamento abbia assunto anche l’ex leader della Cgil Cofferati che di tutto si può accusare meno che egli non abbia sempre fatto e non faccia gli interessi dei lavoratori. La dura battaglia da lui intrapresa, in prima persona, contro la riforma dell’altra parte dell’articolo 18, quella riguardante la grande impresa, mi sembra che lo dimostri a sufficienza. Il suo no quindi è- se ce ne fosse  ancora bisogno- un’ulteriore conferma, anzi la prova del nove di quanto sia stato mal posto e gestito questo quesito referendario.

Quel che sorprende è che, invece, i vertici della Cgil, sia pur per motivi che appaiono palesemente  di tipo tattico, intendano, in qualche modo, anche se con una malcelata tiepidezza, sostenere questo referendum. Liberi di farlo ovviamente anche se è, a nostro giudizio, aver assunto questo comportamento ci sembra un grave errore che potrà anche lasciare qualche cicatrice.

E la cosa più assurda è che ci dobbiamo occupare di tutto questo mentre ben altre sono le urgenze e le priorità del nostro paese oggi colpito da una crisi economica che si sta rivelando più lunga, tenace e pericolosa di quanto solo pochi mesi fa fosse lecito prevedere.

Sono almeno due i segnali da allarme rosso: da un lato, la caduta quasi verticale delle esportazioni dovuta in gran parte al forte apprezzamento dell’euro sul dollaro e poco ci consola il fatto che gli altri paesi europei non stiamo oggi meglio di noi e, dall’altro, la perdurante stagnazione che sta caratterizzando i consumi interni.

Le ricadute sul sistema sono già assai vistose: una diminuzione del fatturato dello 0,6% e degli ordinativi dei settori industriali addirittura del 9%, dati che trovano  riscontro solo nel dicembre 2001 quando cioè l’onda lunga degli attentati dell’11 settembre sommerse letteralmente tutti i mercati.

E’ vero che la forte rivalutazione dell’euro sul dollaro ci consente di pagare di meno i prodotti petroliferi ma questa rischia di essere una magra consolazione perché la mannaia  è calata su settori che, restando a quota zero cioè pressocchè fermi i consumi interni di beni durevoli, stavano cercando  di arginare le perdite puntando almeno sulle esportazioni. E, invece, è stata, per quanto riguarda il fatturato, una debacle: -14,4% per le industrie manifatturiere, -9,9% per quelle che producono pelli e calzature, -9,5% per gli apparecchi elettrici e di precisione, -7,2% per  i mezzi di trasporto.

Insomma un vero e proprio corto circuito che sta mandando il tilt tutto il sistema e  che, se non si appronteranno immediati interventi, rischia di portare la nostra economia - ci siamo già assai vicini - verso un periodo di vera e propria deflazione: bassa produttività, ancora più bassi consumi, scarsa produzione di ricchezza, minori risorse per gli investimenti e per l'attuazione delle riforme e quindi anche minore occupazione.

Non ci consola il fatto che paesi come gli Stati Uniti e la Germania stiano come noi o addirittura peggio di noi. Anche perchè, tra noi e loro, c’è una differenza sostanziale: loro possono contare su un sistema economico che ha solide radici e che consentirà loro, quando cambierà il vento dell’economia, di ripartire abbastanza rapidamente, noi , invece, teniamo i piedi su un sistema che ha fatto ormai molta ruggine e che faticosamente, tra mille difficoltà, stiamo tentando di riformare. E il timore è che questa crisi, assai più grave del previsto, possa rallentare questa già  difficile e faticosa opera di ristrutturazione.

Ecco perché bisogna adottare misure simili a quelle che, negli ospedali, vengono utilizzate per chi viene ricoverato in terapia intensiva.

Accelerare il più possibile, certo, le riforme di sistema perché, senza di esse, sarà difficile che la nostra economia ritorni ad essere competitiva, ma, nel contempo, mettere mano all’unico strumento che abbiamo a disposizione per uscire dalla sacca di questa stagnazione. E questo strumento non può che essere quello del rilancio della domanda interna dato che poco o nulla possiamo fare, invece, per cambiare il corso dell’economia internazionale.

Rilanciare i consumi significa prima di tutto adottare misure che restituiscano fiducia a quelle famiglie che oggi continuano, ma solo per necessità, a riempire i carrelli di prodotti alimentari ma hanno praticamente smesso, invece, di acquistare altri generi di prodotti. E così i magazzini delle imprese sono pieni di lavatrici, televisori, computer, scarpe, vestiti, mobili, auto che non si possono più vendere all’estero ma che anche gli italiani hanno smesso di comprare.

Vediamo di uscire da questa situazione che, così come è oggi, rischia di non  portarci più da nessuna parte. Mettiamo mano alla riforma fiscale ed è sicuro che a trarne beneficio non saranno solo le famiglie e le imprese ma anche, con gli interessi, le entrate dello Stato. Facciamo in modo che le famiglie possano collocare i loro risparmi in forme di investimento che siano più remunerative di quelle che oggi vengono offerte sul mercato. Facciamo in modo di restituire un po’ di ottimismo sulle prospettive dell’economia a chi lo ha perso. Svoltiamo come possiamo ma non stiamo ancora fermi sotto la pensilina in attesa che passi il treno della ripresa dell'economia mondiale. Perché l’attesa potrebbe anche essere lunga e tutto possiamo fare meno che aspettare un altro anno.

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