IMPRESE COMMERCIALI E CENTRI URBANI: PROGETTUALITA' PER IL XXI SECOLO

IMPRESE COMMERCIALI E CENTRI URBANI: PROGETTUALITA' PER IL XXI SECOLO

Milano, 19 marzo 2002

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19 marzo 2002
Intervento di Sergio Billè

IMPRESE COMMERCIALI E CENTRI URBANI:

PROGETTUALITA’ PER IL XXI SECOLO.

 

Milano, 19 marzo 2002

 

 

Penso che non possa che farci bene dire la verità e dirla fino in fondo: negli ultimi trent’anni, il tasso di progettualità, di una vera cultura della progettualità volta al razionale e lungimirante  sviluppo dei nostri centri urbani , è stato, salvo poche eccezioni , del resto, facili da individuare, assai basso, del tutto insufficiente a soddisfare bisogni e istanze di una società che   si picca di essere tra le più moderne e industrializzate del mondo.

Vorrei elencare prima di tutto le  cose che principalmente, in tutti questi anni, non hanno funzionato e poi, invece, quelle che, cominciando lentamente e , sia pure tra mille difficoltà, a funzionare, ci permettono di guardare al futuro con maggiore ottimismo.

E’ fin troppo facile elencare- ma credo che valga la pena di ricordarli  ancora una volta-  gli errori compiuti.

 

  1. La realizzazione di progetti urbanistici che, improntati spesso alla mera speculazione edilizia, non hanno tenuto nel debito conto, spesso in nessun conto, i problemi di carattere strutturale che l’allargamento vorticoso,a strappo, dell’agglomerato urbano avrebbe necessariamente e drammaticamente sollevato. Così molta gente è andata ad abitare in aree che , sulla carta, erano diventate urbane, ma  che poi non erano ancora dotate di servizi di alcun genere, anche di quelli di primaria necessità come  trasporti, assistenza logistica e sanitaria,  raccolta dei rifiuti,  sicurezza. Ed è stato certamente grande lo spirito di iniziativa di decine di migliaia di operatori della piccola come della grande distribuzione i quali, spesso senza supporto alcuno, hanno deciso di avventurarsi, assumendosene tutti i rischi, in questa specie di grande Far West. Sono stati loro  e non lo Stato e le  amministrazioni locali ad impedire, per primi, che queste nuove aree urbane vivessero e crescessero, per anni e anni, nel più disperato degli isolamenti.
  2. Ma la mancanza di una cultura della progettualità si è spinta purtroppo anche oltre. Non solo si è permesso che venissero costruite case col deserto intorno, interi quartieri dai quali era impossibile poi raggiungere, per mancanza di trasporti, i luoghi di lavoro o un qualsiasi pronto soccorso, ma si è fatto poco per prevedere e quindi programmare quello che sarebbe stato, in futuro, il logico sviluppo di queste zone. Due sono gli esempi più eclatanti di questa miopia progettuale. Il primo è quello dei trasporti. In altre parti d’Europa- e tutti sappiamo quali- insieme ai nuovi quartieri si sono realizzati contestualmente sistemi di trasporto pubblico rapidi ed efficienti. Avete un’idea, invece, dei costi , anche in termini di tempo, che ,chi abita in una delle grandi periferie metropolitane oggi esistenti in Italia, deve sopportare ogni giorno per raggiungere il luogo di lavoro? Solo negli ultimi anni questo problema da noi ha cominciato a porsi con risultati che però, dati i ritardi accumulati, sono ancora assai parziali. E non poteva, invece, essere impostato e risolto negli anni 70 quando il problema dell’esplosione urbanistica cominciava a porsi in termini più che concreti e tangibili? E poi mi si viene a parlare dell’allarmante tasso di inquinamento che sta rendendo invivibili le nostre città. Ma ci si è mai chiesti perché milioni e milioni di persone sono oggi costrette , per raggiungere il luogo di lavoro o effettuare spostamenti nell’area urbana, ad usare il mezzo privato anziché quello pubblico?

 

Il secondo problema che vorrei citare come esempio è quello dei parcheggi. Per decenni sono stati date centinaia di migliaia di concessioni edilizie senza l’obbligo di costruzione di parcheggi all’interno dei caseggiati. Il risultato, devastante, lo conoscete: strade intasate da auto di residenti che, per paura di perdere il loro posteggio, le lasciano ferme anche per settimane. Non vorrei generalizzare troppo perché qualche eccezione esiste, ma fatevi un giro nelle aree metropolitane che si trovano anche a ridosso dei centri storici in città come Napoli, Palermo, Roma e anche Milano e vi renderete conto degli effetti devastanti, anche per il commercio, che questa mancanza di progettualità ha prodotto.

 Non c’è dubbio che qualcosa, come dicevo all’inizio, comincia a funzionare meglio. 1-Il fatto stesso che i sindaci delle città siano ora eletti direttamente dai cittadini e possano restare in carica per il tempo necessario per programmare ma  anche realizzare certe opere ha prodotto, sta producendo effetti positivi. Inoltre hanno cominciato a funzionare meglio le circoscrizioni, atolli amministrativi che, nell’universo urbano, possono agire con poteri che prima non esistevano. Infine, l’esplosione del problema ambientale con sempre più larghe aree urbane, nelle grandi come nelle medie città, costrette addirittura a sospendere il traffico automobilistico per giorni interi a causa del tasso di inquinamento atmosferico che è stato raggiunto, sta risvegliando la coscienza di tutti e anche quella, meglio tardi che mai, degli amministratori pubblici.

Ci si è resi conto, insomma, che i modelli di sviluppo urbano che forse andavano bene fino agli anni 90, oggi non sono più proponibili. Ci si è resi conto di quali effetti devastanti abbia prodotto quella che ho chiamato- e credo propriamente- mancanza di cultura della progettualità e si sta cercando di correre ai ripari. Ci si è resi conto- e mi riallaccio proprio al titolo scelto per questa tavola rotonda- che un centro urbano, per continuare ad essere un polo vitale di sviluppo, deve fare prima di tutto un salto di qualità culturale , il che vuol dire molte cose.  Ne parlerò tra poco.

2-Anche La riforma federalista, che ci stiamo apprestando a realizzare, avrà un senso compiuto, darà un valore aggiunto  all’ammodernamento di questo paese se metterà in piedi strutture regionali in grado programmare e poi di gestire  modelli di sviluppo che, da un lato,  consentano di garantire più sicurezza ed efficienza  a tutti i centri urbani che operano in quella fetta del territorio e , dall’altro,  consentano lo sviluppo economico e la produzione di una maggiore ricchezza. Il modello di federalismo che ci apprestiamo a realizzare saprà davvero raggiungere questi obbiettivi? Io ho dei dubbi e so di non essere il solo ad averne. Temo, infatti, che , con il passaggio di poteri e di funzioni dallo Stato centrale a quello periferico , si trasferiscano anche , anzi soprattutto quei modelli di comportamento, quell’ottica di approccio, quelle consuetudini di gestione , quelle arretratezze di carattere culturale che fino ad ora hanno impedito o resa incerta e difficile una seria e fattiva collaborazione tra Pubblica amministrazione ed operatori economici. Se avessimo- e spero vivamente che ciò non avvenga- tante fotocopie , quante sono le Regioni, di quel moloch burocratico contro cui fino ad oggi il mondo economico e, in particolare, quello della distribuzione ha cercato di lottare in ogni modo, allora di questo federalismo non sapremmo proprio che farcene. Mi auguro insomma- e il governo mi sembra che si sia ora impegnato in questo senso- che , in corsa, questa riforma possa essere sostanzialmente riformata e migliorata e resa più  funzionale all’obbiettivo che vuole raggiungere che è e resta quello della modernizzazione di questo paese.

Cosa significa- e vengo al punto lasciato prima in sospeso- fare un vero salto di qualità culturale? Molte cose e prima di tutto fare in modo che l’economia abbia nuove e più moderne coordinate di sviluppo. Il che significa affrontare i problemi dei nostri certi urbani in modo che i suoi soggetti economici più attivi e, in primo luogo, la distribuzione commerciale, possano operare nel contesto di una programmazione del territorio che, al contrario di quel che accade spesso oggi, non distrugga con una mano ciò che con l’altra cerca, spesso con affanno, di costruire. Oggi il sistema di programmazione è una galassia in cui si intrecciano piani e modelli di comportamento spesso in contrasto tra di loro con  piani urbanistici che non tengono in alcun conto , ad esempio, gli interventi che sono necessari per la valorizzazione del commercio quali i problemi della residenzialità e del trasporto, della logistica delle merci, della sicurezza , della valorizzazione turistica che va ampliata il più possibile e non circoscritta solo a certi luoghi storici, dei servizi alla persona.

Il commercio può svilupparsi  solo se è in grado di operare in un contesto nel quale anche tutte le altre attività hanno modo di esprimersi e di creare ricchezza.  Come occorre valutare, caso per caso, quale sia il giusto mix tra commercio tradizionale, grande distribuzione, attività ricreative e attività culturali e museali.

Realizzare un salto culturale significa recuperare e valorizzare anche zone semi periferiche e periferiche che oggi hanno la luce elettrica, tv paraboliche, centri commerciali operativi ma assai poco di tutto il resto.

Con un altro problema che fino ad ora appare fin troppo trascurato se si lascia piazza San Babila o piazza Navona per inoltrarsi nelle grandi periferie. Mi riferisco al problema della “manutenzione quotidiana” delle strutture che, una volta create, poi , per mancanza di interventi, si degradano rapidamente.

Un’idea potrebbe essere quella di creare un “town manager” cioè una persona che possa coordinarsi con i vari assessorati e  risolvere via via i problemi , le disfunzioni , i ritardi che possono manifestarsi in campo urbanistico, per l’arredo urbano, per il traffico, per la raccolta dei rifiuti, ecc.

Sarebbe un bel salto culturale creare una figura che si collochi e faccia da ponte, da catena di trasmissione  tra imprese ed amministrazione in modo che si possano affrontare, con tempestività, i piccoli e grandi problemi di cui soffre oggi giorno la comunità urbana.

Salto culturale significa, inoltre, rendersi conto che le imprese commerciali sono diventate ormai soggetti protagonisti della vita non solo economica ma anche sociale e culturale  del centro urbano.

Le amministrazioni pubbliche non possono alzare le saracinesche delle imprese commerciali quando serve loro per  incassare tasse e imposte e poi abbassarle quando si tratta,invece, di affrontare i loro problemi e le loro esigenze.

Che poi non sono soltanto loro, ma anche, in eguale misura, di tutti coloro che oggi vivono, come possono, con sempre maggior stress, con sempre maggiori difficoltà, all’interno di un’area urbana. Chiediamo tutti una soglia di “vivibilità” sociale, economica, culturale maggiore ed è compito dell’amministrazione pubblica  fare in modo che questa soglia ci sia e ci sia per tutti.

 

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