Incontro con il Segretario del Partito Democratico On.le Pier Luigi Bersani

Incontro con il Segretario del Partito Democratico On.le Pier Luigi Bersani

Roma, 17 ottobre 2012

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17 ottobre 2012
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Roma, 17 ottobre 2012

 

 

Incontro con il Segretario del Partito Democratico On.le Pier Luigi Bersani

 

Intervento del Presidente Carlo Sangalli

 

 

 

Caro Segretario, Caro Pier Luigi,

anzitutto, grazie per avere accettato l’invito al confronto con il Consiglio Generale di Confcommercio-Imprese per l’Italia.

Con la Tua partecipazione, “inauguriamo”, oggi, un ciclo di incontri con le forze politiche che sorreggono l’esperienza dell’Esecutivo guidato dal Presidente Monti.

E’ un’iniziativa che abbiamo assunto con l’obiettivo di fare il punto su quanto, nell’ambito di questa esperienza, è stato fin qui fatto per la “salvezza” dell’Italia; su quanto potrà ancora essere utilmente fatto, pur nel tempo breve di una legislatura che volge ormai al termine; su quanto occorrerà continuare a fare nella legislatura che verrà.

Per la “salvezza” dell’Italia: cioè tanto per rispondere alle emergenze della finanza pubblica, quanto per far sì che il nostro Paese torni ad imboccare il cammino della crescita.

Per la “salvezza” dell’Italia: cioè per mettere in campo una risposta determinata, e più che mai urgente, alle sfide di una stagione difficilissima.

Una stagione in cui i costi economici e sociali di una lunga e dura recessione si incrociano con una crisi profonda della politica, determinando così una miscela esiziale per la stessa tenuta della democrazia repubblicana.

Insomma, siamo innanzi ad un tornante cruciale della storia della Repubblica.

La Carta d’Intenti dei democratici e dei progressisti lo dice, del resto, in maniera efficace: “Il prossimo Parlamento e il governo che gli elettori sceglieranno avranno tre compiti decisivi. Dovranno guidare l’economia fuori dalla crisi rimettendola salda sulle gambe. Dovranno ridare autorità, efficienza e prestigio alle istituzioni e alla politica, ripartendo dai principi della Costituzione. Dovranno rilanciare – in un gioco di squadra con le altre nazioni e i loro governi – l’unità e l’integrazione politica dell’Europa”.

Si tratta di compiti che chiamano in causa la responsabilità della politica e delle istituzioni, ma certamente anche delle forze sociali.

In questa mia introduzione al Tuo intervento, vorrei, allora, provare a delineare il nostro punto di vista su quanto occorre fare per il migliore svolgimento di questi compiti.

Il nostro punto di vista: il punto di vista, cioè, di larga parte di un’Italia produttiva, cui la recessione non sta certamente facendo sconto alcuno, ma che non demorde, non si rassegna al declino del suo Paese e, ogni giorno, si impegna per costruire lavoro e benessere.

Questa Italia sa benissimo che occorreva reagire tempestivamente ad uno scenario da “deriva greca”.

Lo si è fatto.

Ma al prezzo salatissimo di un’impennata della pressione fiscale complessiva e, tra l’altro, anche di una severa riforma del sistema pensionistico.

Ne sono derivati pesanti effetti recessivi, puntualmente registrati da ogni indicatore economico e ancora meglio raccontati dalla fotografia di sintesi di un’Italia più povera, decisamente più povera.

Un’Italia in cui prodotto interno e consumi pro capite fanno un balzo all’indietro di circa quindici anni.

Un’Italia in cui si fa ancora più profondo il divario tra Nord e Sud. Al punto tale che, al ritmo dell’ultimo decennio, per colmare questo divario occorrerebbero – ricorda l’ultimo Rapporto Svimez – addirittura 400 anni.

Rispetto a questo scenario, anche in occasione del recentissimo varo della Legge di Stabilità, il Governo ha comunque confermato che saremo in grado di onorare l’impegno al raggiungimento, nel 2013, del pareggio di bilancio per come inteso in sede europea.

Benissimo.

Ma va pur detto che - proprio alla luce di questo stesso scenario e pur riconoscendo la tenacia della nostra Italia produttiva - davvero non si vede come si possa sostenere che si inizierebbe ad intravedere la luce in fondo al tunnel della crisi.

Il Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, prevede che il nostro prodotto interno registri, nel 2013, un’ulteriore riduzione dello 0,7%.

Commentando il dato, il Ministro dello sviluppo economico, Corrado Passera, ha invece sostenuto che “la crescita zero è un obiettivo secondo noi ancora raggiungibile”.

Crescita zero: tutta qui la luce?

Insomma, sul versante del rigore, è ormai lo stesso capo economista del Fondo Monetario Internazionale – Olivier Blanchard – a ricordare che l’aggiustamento dei bilanci pubblici non è una gara da centometristi, ma una maratona, in cui “chi va piano va sano e va lontano”.

Mentre, sul versante della crescita, occorre decisamente più determinazione ed ambizione.

Prendendo, allora, atto del fatto che – in Europa ed in Italia – rischiamo davvero di avvitarci nella spirale tra disciplina fiscale e recessione.

E contrastando questo avvitamento con i fatti che consentano di dire che finalmente, sulle ragioni della crescita, l’Europa e l’Italia “ci mettono la faccia”, per far ricorso giusto ad un’espressione del Presidente Monti.

Per questo serve un’Europa politicamente compiuta.

Un’Europa in cui si passi dalle cessioni emergenziali di sovranità in risposta alla crisi dei debiti sovrani ad una scelta di condivisione di sovranità in nome di solidissime, buone e comuni ragioni.

La buona ragione dell’irreversibilità della scelta dell’euro e, insieme, le buone ragioni del ruolo complessivo dell’Europa e della sostenibilità del suo modello economico e sociale nel quadro della competizione globale.

Quanto al nostro Paese, l’emergenza – lo ripeto - è stata affrontata e si è rafforzata la fiducia nei confronti della capacità dell’Italia di onorare il proprio debito pubblico.

Ma il vero test di credibilità resta quello della capacità nostra di tornare a crescere.

Insieme alle scelte europee, occorre, allora, una compiuta agenda italiana per il risanamento, la ricostruzione e la crescita, che delinei, in particolare, una prospettiva realistica di riduzione netta della pressione fiscale complessiva.

Dunque, anzitutto per questo non ci ha convinto lo scambio tra più IVA e meno IRPEF, proposto con il recentissimo varo del disegno di Legge di Stabilità.

Calcoli alla mano, infatti, non si tratta, a regime, neppure di uno scambio compensativo: da un lato, la riduzione IRPEF di un punto sui primi due scaglioni di reddito; dall’altro, meno detrazioni e deduzioni IRPEF, ma, soprattutto, più IVA.

Anche dal punto di vista dell’equità, la soluzione, a nostro avviso, non tiene.

Perché gli aumenti IVA incidono di più sui redditi più bassi, sicché, anche per la spinta inflazionistica innescata dalle maggiori aliquote IVA, il potere d’acquisto di questi redditi risulterà eroso.

Ovviamente, poi, gli aumenti IVA incideranno – integralmente e senza alcuna compensazione – sull’amplissima platea dei soggetti fiscalmente incapienti.

In particolare, l’inasprimento dell’aliquota IVA ridotta – dal 10% all’11% - colpirà molti prodotti alimentari e due veri e propri volani del possibile ritorno alla crescita del nostro Paese: il settore del turismo ed il settore delle ristrutturazioni edilizie, entrambi già duramente provati dalla prolungata recessione.

In breve, non ci sembra che siano scelte utili: né alla crescita, né all’equità.

Chiediamo, allora, che queste scelte siano riviste: che sia, cioè, confermato l’impegno originario del Governo all’integrale archiviazione degli aumenti IVA, programmati a decorrere dal luglio del 2013.

Quanto all’IRPEF, chiediamo poi che si ricorra, il prima possibile, all’attivazione del fondo “taglia-tasse”, alimentato dai proventi del recupero di evasione.

Altrimenti, a fare la spesa di queste scelte, sarà la domanda interna nel suo complesso: la domanda per investimenti ed i consumi delle famiglie.

Quella domanda interna che contribuisce alla formazione del prodotto interno per circa l’80% e che, dunque, resta determinante per il contrasto della recessione e per il ritorno alla crescita.

Tornare a crescere significa, infatti, tenere insieme dinamicità dell’export e tonicità della domanda interna. Tornare a crescere significa anche tenere insieme politica industriale e politica per i servizi.

Perché – è vero - disponiamo del secondo sistema manifatturiero d’Europa.

Ma, già oggi, i servizi di mercato contribuiscono alla formazione del valore aggiunto e dell’occupazione in misura largamente superiore al 40% del totale.

E’ un contributo importante, ma noi siamo convinti che si possa fare di più e meglio.

Per questo è tempo di una politica che si concentri su scelte determinanti per l’accrescimento della produttività di tutto il sistema imprenditoriale italiano e di tutto il Paese: infrastrutture, integrazioni di rete ed internazionalizzazione, ma anche istruzione e formazione, ricerca ed innovazione.

 

Una politica che chiama in causa selezionati investimenti pubblici in conto capitale, ma soprattutto chiama in causa la capacità pubblica di mettere in campo una efficace regolazione pro-concorrenziale di molti mercati in cui il vento delle liberalizzazioni ha ancora poco spirato.

Ecco, questa mia rassegna di quanto serve, di quanto occorre conferma, in definitiva, che impresa e lavoro sono i motori della crescita.

E che è, dunque, giusto chiedere loro - come il Governo sta facendo – di rafforzare lo sforzo cooperativo per il miglioramento della produttività.

L’impegno unitario delle imprese c’è, e confido nella possibilità di una soluzione a tutto vantaggio degli interessi generali dell’Italia.

Ma sia chiaro che la produttività del lavoro dipende anche - e molto - dalla produttività complessiva del Paese.

E, dunque, dall’avanzamento dell’intero cantiere delle riforme – basti pensare al nodo della riforma della pubblica amministrazione - e, dunque, dalla qualità delle scelte politiche.

Oggi, la qualità delle scelte politiche la si misura anzitutto sul versante della risposta ad un drammatico deficit di legalità. Perché qui siamo davvero in condizioni da “allarme rosso”.

Serve, allora, l’efficienza del sistema giustizia ed il contrasto più determinato della piaga della corruzione, giustamente definita dalla Corte dei Conti come una “tassa immorale ed occulta” stimata nell’ordine dei 60 miliardi di euro l’anno.

Serve una vera e propria ricostruzione dell’etica pubblica e dell’etica dell’impegno politico. Una ricostruzione robustamente “stimolata” dalla severità delle regole, da una drastica riduzione dei costi della politica, dalla stessa riforma della legge elettorale.

Così come occorre la rivisitazione dell’impianto del Titolo V della Costituzione.

Perché il federalismo – ne resto convinto – serve. Ma serve il federalismo della responsabilità e della cooperazione. Della responsabilità delle scelte di spesa e di tassazione. Della cooperazione delle competenze e della cooperazione tra funzione pubblica ed iniziativa privata.

Per questo, per tutto questo – ne resto più che mai convinto – serve la buona politica.

Il che ci impegna – ci impegna come cittadini e come rappresentanza sociale – ad una critica della politica che c’è: critica esigente, critica severa, ma capace di distinguere.

Ci impegna ad una critica che, proprio perché capace di distinguere, si faccia sprone di quanto la politica deve assolutamente fare.

Cito dalla Carta d’Intenti dei democratici e dei progressisti: “la politica deve recuperare autorevolezza, promuovere il rinnovamento, ridurre i suoi costi e la sua invadenza in ambiti che non le competono”.

E ancora: “Riconoscere il limite della politica e dei partiti significa anche aprire il campo alle richieste d’impegno e mobilitazione che maturano nella società ed alle competenze che si affermano”.

Principi che – se, caro Segretario, me lo consenti – vorrei integrare, sottolineando che rinnovamento della politica significa anche capacità di preservare il filo tenace del riconoscimento, da parte dei partiti politici, di una comune responsabilità repubblicana.

Oggi e nella prossima legislatura.

Perché, quali che saranno le scelte degli elettori, gli assetti di maggioranza ed opposizione, la formula di governo, la legislatura che verrà possa davvero assolvere – lo abbiamo ripetutamente auspicato – ad una funzione costituente.

Perché questa comune responsabilità repubblicana non potrà che giovare al superamento delle sfide ancora aperte per il nostro Paese e, anzitutto, al superamento della sfida del ritorno alla crescita.

Perché l’Italia è davvero “bene comune”.

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