Sergio Billè al forum CFMT - "Terziario: il motore dell'economia"

Sergio Billè al forum CFMT - "Terziario: il motore dell'economia"

Roma, 21 novembre 2003

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21 novembre 2003
Spunti di riflessione su "Politica economica per governare l'Italia del terziario"

Roma, Cfmt - 21 novembre

 

Intervento del presidente Billè

 

Gli indicatori relativi all'economia italiana (PIL, commercio con l'estero, ecc.) segnalano ormai da diverso tempo il rallentamento dello sviluppo.

 

Su quali siano le origini (situazione internazionale, effetti del patto di stabilità, ecc.) esistono molte analisi che hanno, però, un punto comune, rappresentato dal fatto che il fenomeno non è solo congiunturale in quanto riflette una situazione di sofferenza strutturale del nostro paese.

 

La perdita di competitività ed  il peggioramento della bilancia commerciale italiana vengono attribuiti a fattori quali l'elevato costo del lavoro, l'incidenza del welfare, l'esiguità delle risorse destinate alla ricerca ed all'innovazione, il deficit di infrastrutture, l'inefficienza della macchina pubblica, le mancate liberalizzazioni e via discorrendo.

 

Le soluzioni proposte sono sempre le stesse: più innovazione tecnologica, più investimenti in infrastrutture, efficienza amministrativa, liberalizzazioni e privatizzazioni.

 

Anche se si è sostanzialmente d'accordo tanto sulle cause che sui rimedi non è possibile far a meno di osservare che - come di consueto - molte proposte abbiano più i connotati dello slogan che una loro effettiva dignità di progetto "nazionale", in termini di obiettivi, tempi e risorse.

 

Prendiamo il caso della ricerca e dell'innovazione. Il sistema della ricerca è destinatario, attraverso il FAR (Fondo Agevolazioni alla Ricerca)  di ingenti risorse pubbliche destinate ad università ed imprese industriali ed altrettanto  avviene per l'innovazione attraverso il FIT (Fondo per l'Innovazione Tecnologica).

 

Questo sistema, anche se rinnovato da provvedimenti quali il decreto legislativo 297 del 1999, è in piedi da decenni. E' abbastanza sorprendente che oggi si sollevi un problema "ricerca ed innovazione" quando aziende ed interi settori economici ne hanno ampiamente usufruito, in modo esclusivo, per decenni.

 

 

 

 

In ogni caso, la ricerca e l'innovazione sono processi che si articolano in tempi medio-lunghi e non è possibile proporli come rimedi anticongiunturali. Analogo discorso per quanto riguarda le infrastrutture che esplicheranno la loro funzione solo tra anni e non servono a risolvere i problemi nell'immediato.

 

Al limite, le infrastrutture hanno un effetto anche sul breve periodo in quanto incrementano l'impiego di manodopera ed influiscono sulla produzione di materiali e componenti ed, indirettamente, sui consumi.

 

Prima di proseguire affrontando il discorso della politica economica per il terziario non si può non soffermarsi su quanto appena ora rilevato per sviluppare alcune riflessioni su tre punti che si ritengono come essenziali.

 

1) L'Italia è in crisi perché il suo modello di sviluppo è entrato in crisi e non da oggi.

La scelta industriale, da sempre operata dal nostro paese, ci espone alla concorrenza dei paesi di vecchia e nuova industrializzazione. Per fare un confronto, la Francia ha una struttura economica che vede una presenza massiccia del settore agricolo ed i prodotti agroalimentari rappresentano la seconda voce attiva della bilancia dei pagamenti transalpina.

Nell'ambito della scelta industriale italiana si è sviluppata una specializzazione verso i settori a bassa e media tecnologia (meccanica, metallurgia, lavorazione materie plastiche, ecc.), evidentemente quelli più esposti nell'attuale situazione internazionale.

 

Le scelte di politica economica operate attraverso le forme di incentivazione non hanno portato ad un sostanziale mutamento nella composizione del tessuto industriale italiano. Si veda, in proposito, il giudizio espresso dalla Commissione europea in sede di valutazione di strumenti quali la L. 488/92, dove le agevolazioni hanno consentito la sopravvivenza di aziende scarsamente competitive (cosiddetto effetto "dead-weights").

 

Oggi viene a cadere un altro dei miti che hanno contraddistinto la politica economica degli ultimi 20 anni, i distretti industriali. Proprio pochi giorni fa l'Unioncamere ha parlato di passaggio dal modello dei distretti a quello delle filiere, contando ben 10 diversi modelli di sviluppo economico-territoriale.

 

 

 

Ma sul concetto di distretto industriale sono state elaborate intere strategie economiche e destinate risorse finanziarie di rilevante entità. Cosa ci resta in mano oggi che scopriamo che non funziona più ?

 

2) L'Italia non ha saputo sostenere i propri interessi in ambito europeo

Il processo di integrazione europea ha portato notevoli vantaggi all'economia italiana. Lo stesso boom economico degli anni '60 è stato ampiamente favorito dalla partecipazione alle Comunità europee e dall'apertura di importanti mercati di sbocco per le nostre produzioni. Quelli che sono stati grandi vantaggi in fase iniziale sono diventati in seguito vincoli, condizionando le nostre scelte di politica economica anche in senso negativo. Ad esempio, il processo di liberalizzazione si è intrecciato con quello di privatizzazione comportando uno stravolgimento nella struttura d'impresa italiana. Le grandi imprese pubbliche sono state per decenni parte fondamentale dell'ossatura economica nazionale. Averle dismesse  rapidamente, senza che il privato fosse in grado di sostituirsi nel ruolo da esse svolto, ha favorito la dissoluzione della grande impresa in Italia.

 

La Francia e la Germania si sono guardate bene dal privatizzare a tutti i costi e quando lo hanno fatto hanno sempre mantenuto forme di controllo e di azione -  anche diretta -nell'economia.

 

La scelta industriale dell'Italia, per riecheggiare gli economisti classici, una sorta di decisione tra il burro (agricoltura, terziario) ed i cannoni (l'industria), ha comportato contropartite nel settore, ad esempio, agricolo. Oggi ci ritroviamo con molti settori nei quali eravamo leader in Europa (si pensi all'agrumicolo), dove siamo diventati addirittura importatori.

 

Il prossimo allargamento comporterà molti vantaggi sul medio-lungo termine ma anche grandi rischi e riduzioni certe ed immediate di fondi destinati alle nostre regioni in ritardo di sviluppo. Si consideri che il bilancio dell'Unione europea prevede che circa il 42% sia destinato alla PAC ed un 30% alle politiche di sviluppo e coesione. L'Italia continuerà a contribuire a tale bilancio ricavando, per scelte antiche, non molto dalla PAC rispetto, ad esempio, alla Francia, e perdendo una quota rilevante dei fondi che le politiche di sviluppo destinavano alle regioni dell'obiettivo 1.  

 

C'è un limite a concetti - giusti in linea di principio - quali la concorrenza, i limiti agli aiuti di stato, l'equilibrio dei conti, ed altro ancora. Gli eccessi, come sempre, portano risultati opposti a quelli desiderati. Si veda il caso del Regno Unito, patria della libera concorrenza, che chiede di rinazionalizzare le politiche europee per lo sviluppo, maggiori possibilità di incentivazione delle imprese e regole comunitarie sugli aiuti di stato più  “elastiche”. La Francia quando è dovuta intervenire nel salvataggio di imprese il cui fallimento avrebbe provocato un disastro occupazionale non ci ha pensato due volte; la Germania senza rinnegare il patto di stabilità continua in politiche di sostegno all'economia, ecc.

 

L'equilibrio tra spinta europeista ed interesse nazionale dovrebbe essere, quindi, sempre perseguito, come ci insegnano molti paesi europei.

 

 

 

3) la grande impresa italiana è scomparsa, nell'industria come nel terziario

Il combinato disposto delle privatizzazioni, della carenza di strategia da parte delle grandi imprese private (in particolare industriali), di politiche economiche che hanno inseguito più i "suggerimenti" di questa o quella lobby o modelli di sviluppo inconsistenti, ha portato al risultato di privare il paese dell'elemento costituito dalla grande impresa. L'ultimo grande stabilimento costruito in Italia, per quanto possa sembrare assurdo, è Melfi. Quel che è peggio le grandi scuole d'impresa, che hanno allevato generazioni di manager, sia in ambito privato (si pensi ad Adriano Olivetti) che pubblico (le grandi imprese IRI, l'ENI), sono scomparse.

 

Il problema non è quello di essere nostalgici di quell'epoca, che è stata contrassegnata da tante, e gravi, problematiche. Ciò che provoca angoscia è il constatare il fatto che si è perduta quella determinazione, quello spirito creativo, quella voglia di confronto che guidava il mondo imprenditoriale.

 

 

 

E' questa la vera crisi dell'economia italiana, una crisi di idee e di uomini, seppelliti da slogan che, di volta in volta, si chiamano "innovazione", "distretti", "alta formazione" ed altre taumaturgiche parole che finiscono solo per contrapporre i concreti interessi a poco concreto costrutto.

 

In questo contesto parlare di politiche per il terziario è perfino limitativo. Il problema non è quello di contrapporre un settore economico ad altri ma di intervenire complessivamente su aspetti quali il rafforzamento della struttura delle imprese, favorire la loro crescita, anche dimensionale, senza penalizzare al contempo le piccole e medie imprese.

 

Si tratta di affrontare una serie di “consueti” nodi critici, particolarmente rilevanti per quanto riguarda il terziario:

 

a)     l'accesso al credito, che è uno dei punti dolenti assieme alla sottocapitalizzazione strutturale delle PMI terziarie; la prospettiva di Basilea 2 non è molto confortante in proposito e vanno messi in campo strumenti che risolvano, una volta per tutte, il problema dell'accesso al credito ed al mercato dei capitali;

 

b)     la formazione professionale ed imprenditoriale ed il problema dello skill-shortage nel terziario; la mancanza di professionalità adeguate nel terziario (si veda il rapporto 2002 della Commissione europea sulla competitività in Europa) è una delle componenti che giocano negativamente nello sviluppo delle imprese e non solamente quelle di tipo avanzato ed a più elevata intensità di impiego delle tecnologie I.C.T.

 

c)     la semplificazione amministrativa e la deburocratizzzione. Molto è stato fatto attraverso i provvedimenti Bassanini ma rimane ancora della strada da percorrere. Le imprese non devono letteralmente "perdere tempo" dietro alle incombenze burocratiche, è necessario stimolare tanto la semplificazione che le figure di assistenza pubblico-private (i CAAF d'impresa, i Centri di Assistenza Tecnica, ecc.);

 

 

 

d)     la riduzione del carico fiscale, autentico rullo compressore di qualsiasi espansione d'impresa. Anche in questo caso molto è stato fatto ma la strada è ancora lunga. Quanto costerà la riforma federale dello Stato, ad esempio? e chi pagherà? I tributi locali saranno un ulteriore fardello? Alle imprese poco importa se la tasse le pagano ad X od ad Y, il problema è il carico fiscale complessivo, altrimenti la concorrenza di altri stati diventerà insopportabile.

 

In definitiva la politica economica per il terziario richiede, in primo luogo, una politica economica per il paese.

 

Pochi slogan, molto costrutto e scelte chiare sulle quali le aziende possano fare affidamento per programmare il loro sviluppo.

 

Infine, tra le diverse semplificazioni ce n'è una che è di fondamentale importanza: quella della riduzione del numero e della complessità di strumenti di incentivazione. La questione non si esaurisce solo nel recente progetto di semplificazione degli incentivi presentato dal Ministro Marzano.

 

 

 

Se si incrociano gli obiettivi (peraltro sanciti nell'ambito delle regole comunitarie sugli aiuti di stato), con la tipologia degli strumenti (automatici, valutativi, negoziali), con i soggetti che ricevono o gestiscono gli strumenti, con le forme di agevolazione (contributi, crediti di imposta, agevolazioni sul credito, ecc. ecc.), con le forme negoziali di secondo livello (Patti, Accordi, Contratti, Intese, PIT, PIA, e via discorrendo), si perviene ad un autentico ginepraio nel quale l'impresa, quella sana che non vive di contributi e che li vorrebbe utilizzare solo per anticipare il break-even di un certo investimento,  si perde. In cambio, il numero di soggetti gestori, di intermediari vari, di documenti, di procedure, ecc. diventa lunghissimo e costoso.

 

A chi conviene un'architettura così complessa? Perciò semplifichiamo, usiamo strumenti più vicini all'impresa, forniamo l'assistenza quando serve e nelle forme più efficaci ed efficienti. E tagliamo i rami secchi, pubblici e privati, che “campano” su forme di intermediazione parassitaria.

 

 

Dobbiamo fare in fretta perché il tempo delle discussioni, delle scelte ideologiche cervellotiche è finito. C'è bisogno di tanta, tanta concretezza.

Grazie.

 

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